Le contraddizioni tra Raffaele Fitto e Giorgia Meloni sull’Europa

In vista della sua audizione, il candidato vicepresidente aderisce convintamente al programma di Ursula von der Leyen, che però nega molte battaglie di Fratelli d'Italia

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro per gli Affari Europei Raffaele Fitto alla Camera dei deputati, il 20 marzo 2024 (Roberto Monaldo/LaPresse)
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro per gli Affari Europei Raffaele Fitto alla Camera dei deputati, il 20 marzo 2024 (Roberto Monaldo/LaPresse)
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Martedì al Parlamento Europeo sono iniziate le cosiddette “audizioni di conferma”, cioè le riunioni in cui i candidati commissari europei, scelti dai singoli governi e dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, vengono interrogati e valutati dagli europarlamentari. Sono procedure non solo formali: al termine delle audizioni le varie commissioni del Parlamento Europeo, e poi anche l’assemblea generale, votano sui vari candidati, e un eventuale voto contrario costringerebbe von der Leyen a modificare la composizione e l’assetto della sua Commissione. È già accaduto in passato: negli ultimi vent’anni, i candidati bocciati dal Parlamento Europeo sono stati otto, e uno dei precedenti più clamorosi riguardò, nel 2004, l’italiano Rocco Buttiglione.

Martedì 12 novembre ci sarà l’audizione di Raffaele Fitto, il ministro per gli Affari europei e dirigente di Fratelli d’Italia che il governo di Giorgia Meloni ha indicato come commissario italiano, e che von der Leyen ha proposto come responsabile delle politiche di coesione col ruolo di vicepresidente.

L’audizione, come da prassi, prenderà spunto da un questionario già a disposizione dei parlamentari, composto dalle risposte che nelle scorse settimane Fitto ha dato in forma scritta a 16 domande che gli erano state poste dagli europarlamentari, sia su temi generali d’interesse per l’Unione Europea sia sulle questioni specifiche che riguardano le varie deleghe che dovrà gestire. Ma la cosa notevole delle sedici pagine del questionario è la nettezza con cui in più di un passaggio Fitto prende le distanze dalle posizioni tradizionali di Fratelli d’Italia sulle questioni europee, in certi casi esprimendo un convinto approccio europeista quantomeno inconsueto per i membri del suo partito, in altri tacendo del tutto temi e slogan ricorrenti nella retorica del governo, in altri ancora confutando alcune storiche battaglie portate avanti da Meloni negli ultimi anni.

Di per sé non è così sorprendente. Un po’ perché Fitto è in effetti il più moderato ed europeista tra i dirigenti di Fratelli d’Italia; un po’ perché questo questionario ha, per Fitto, un preciso fine politico: agevolare la sua nomina definitiva, dissipando i dubbi che sul suo conto nutrono alcuni europarlamentari progressisti.

Il ministro per gli Affari europei Raffaele Fitto durante il convegno “Per un’Europa più giovane” organizzato dal ministero per la Famiglia a Roma, il 12 aprile 2024 (Roberto Monaldo/LaPresse)

Vari esponenti del Partito socialista europeo, dei Verdi e di Renew, cioè delle componenti di centro e di sinistra che sostengono la Commissione di von der Leyen, nelle settimane scorse avevano più volte espresso critiche sul dare a Fitto – un esponente di un governo di destra e sovranista – un incarico formalmente rilevante come quello di vicepresidente. Le obiezioni più consistenti riguardavano questo punto: Fratelli d’Italia, come buona parte del suo gruppo di appartenenza al Parlamento Europeo, i Conservatori e riformisti (ECR), il 18 luglio scorso votò contro la riconferma di von der Leyen alla guida della Commissione, di fatto ponendosi all’opposizione; pertanto, Fitto come vicepresidente si troverebbe a dover attuare le politiche di un organismo contro cui il suo partito si è espresso.

Per questa ragione parecchie delle sue risposte nel questionario aderiscono convintamente agli orientamenti di von der Leyen, soprattutto rispetto alle questioni su cui Fitto sarà responsabile. Ma questa totale adesione al programma di von der Leyen è stata confermata anche sul cosiddetto Green Deal e sulla transizione ecologica, proprio i due temi che avevano portato alla rottura tra Fratelli d’Italia e von der Leyen lo scorso luglio: Meloni aveva indicato la mancata revisione delle politiche europee sulla transizione ecologica come la ragione per cui aveva ritenuto di non poter appoggiare il secondo mandato di von der Leyen. «È un danno per le imprese», aveva detto Carlo Fidanza, il capodelegazione di Fratelli d’Italia al Parlamento Europeo, in riferimento al nuovo Green Deal prospettato da von der Leyen, per giustificare il proprio voto contrario.

Nelle sue risposte, invece, Fitto cita sempre in maniera positiva le linee programmatiche indicate da von der Leyen sulla transizione ecologica, dicendosi intenzionato a seguirle. Sulle sue deleghe specifiche, inoltre, spiega che le «politiche di coesione devono essere del tutto allineate con le priorità strategiche dell’Unione Europea, e tra queste ci sono la competitività, la transizione verde e digitale, la resilienza economica e sociale». Poi sostiene la necessità per gli Stati membri di concentrare gli sforzi nell’attuare i piani come il PNRR italiano rispettando i sei “pilastri” del Recovery Plan (il grande piano europeo di investimenti), tra cui appunto la transizione ecologica.

E proprio sull’attuazione del Recovery Plan, una delega importante che Fitto gestirà indirettamente contribuendo al lavoro del commissario all’Economia Valdis Dombrovskis, c’è un’altra significativa presa di distanze di Fitto dal suo partito. Se Meloni e soprattutto Giancarlo Giorgetti, il ministro dell’Economia, hanno più volte rinnovato la richiesta di prorogare la scadenza del PNRR oltre il 30 giugno 2026, Fitto – che ha del resto sempre considerato improbabile questa soluzione – nelle sue risposte indica sempre quella del 2026 come una «deadline» categorica, senza mai accennare a possibili rinvii.

Giorgia Meloni e Ursula von der Leyen a Bruxelles, durante un incontro sulla cooperazione tra l’Unione Europea e i Paesi del Golfo, il 16 ottobre 2024 (Omar Havana/LaPresse)

Forse il tema su cui la distanza rispetto a Meloni è più rilevante riguarda lo stato di diritto, cioè il rispetto dei valori democratici liberali e il bilanciamento dei poteri statali alla base dell’Unione Europea. Qui del resto la materia tocca direttamente le deleghe che Fitto dovrà gestire come commissario alla Coesione. Nel suo primo mandato, von der Leyen ha spesso favorito l’applicazione di un principio per cui ai governi che non rispettavano lo stato di diritto, e nella fattispecie Ungheria e Polonia, veniva congelato il trasferimento dei fondi europei stanziati dai vari piani di investimento. Meloni, nel difendere i suoi alleati sovranisti polacchi e ungheresi, aveva ferocemente criticato questo meccanismo, descrivendolo come «raccapricciante» e accusando le istituzioni europee di voler usare queste procedure per tenere sotto ricatto i governi dei paesi ex sovietici.

Fitto spiega ora che intende assecondare le indicazioni di von der Leyen sulla necessità di rafforzare i vincoli legati allo stato di diritto nel prossimo bilancio settennale dell’Unione (2028-2034), puntando «sulla continua applicazione del regime generale di condizionalità applicata a tutti i fondi». In pratica Fitto promette che, nel gestire i fondi di coesione e quelli per lo sviluppo delle aree più arretrate economicamente, si terrà conto del rispetto dello stato di diritto («rule of law») da parte degli Stati membri, negando o riducendo le erogazioni a quelli che contravvengono a questi principi democratici.

Leggendo il questionario colpisce poi anche l’assenza di qualsiasi riferimento alle molte battaglie identitarie del ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida. Nel capitolo dedicato all’agricoltura e allo sviluppo delle aree rurali, Fitto non fa alcun accenno alla sovranità alimentare o al divieto di carne coltivata in laboratorio o alla necessità di indicare in maniera particolare l’utilizzo di farine d’insetti.

Ci sono almeno altri due passaggi notevoli delle risposte di Fitto.

Uno è sul dichiarato convincimento della necessità di un bilanciamento di genere negli organismi direttivi della Commissione, con toni evidentemente diversi da quelli di solito adoperati da esponenti di Fratelli d’Italia. «Il mio impegno per l’uguaglianza di genere è assoluto e io credo che l’attenzione all’uguaglianza di genere, prima ancora di essere un dovere, sia una significativa opportunità per il funzionamento di ogni società. Per questo, sono intenzionato a promuovere una leadership equilibrata dal punto di vista del genere, a partire dal mio gabinetto», scrive, tra l’altro, Fitto.

L’altro elemento interessante riguarda il fatto che, fin dalla presentazione che Fitto fa di sé stesso nell’apertura del questionario riassumendo la sua carriera politica, citi un unico partito, tra i vari in cui ha militato: la Democrazia Cristiana, il partito moderato cattolico in cui ha esordito non ancora ventenne. Nessuna menzione di Forza Italia né di Fratelli d’Italia: il che indica evidentemente la volontà di Fitto di rimarcare come le sue radici politici non abbiano nulla a che vedere con l’estrema destra postfascista da cui proviene la grande maggioranza dei dirigenti di Fratelli d’Italia, partito a cui Fitto aderì solo nel 2019. Se insomma molta della diffidenza con cui i parlamentari europei di altri paesi guardano al governo di Meloni ha a che vedere coi legami più o meno diretti col fascismo, Fitto evidenzia la sua estraneità rispetto a quella storia e a quelle nostalgie. Anche in questo senso, dunque, emerge il tentativo di disinnescare eventuali polemiche che potrebbero riguardarlo, e che potrebbero compromettere la sua definitiva conferma al ruolo per cui von der Leyen lo ha scelto.

Una bocciatura di Fitto da parte del Parlamento Europeo appare comunque piuttosto improbabile, anche perché Fitto verrà sentito per primo, e questo lo agevola ulteriormente: un eventuale voto contrario sul ministro italiano innescherebbe verosimilmente ritorsioni anche su altri candidati, e in particolare sulla socialista spagnola Teresa Ribera o sul liberale francese Stéphane Séjourné, vicino a Emmanuel Macron. A quel punto l’intera commissione di von der Leyen dovrebbe essere ripensata.