In Cile la memoria storica è una questione complessa
Ogni tema provoca scontri, a partire dalla dittatura: le polemiche coinvolgono statue, tombe e macerie del palazzo presidenziale
di Valerio Clari
Negli ultimi dieci anni in Cile la quota di popolazione che giustifica la dittatura di Augusto Pinochet è aumentata di 20 punti percentuali, passando dal 16 al 36 per cento. Non è la stima di movimenti di sinistra: lo dicono due diverse relazioni diffuse nel 2013 e nel 2023 dal CERC MORI, il principale ente di sondaggi cileno, in occasione rispettivamente del 40esimo e 50esimo anniversario del colpo di stato. Sempre più spesso esponenti politici della destra cilena, anche quella non estrema, rivendicano apertamente il golpe e il successivo regime militare.
Nel 2023 però le commemorazioni per i cinquant’anni dal colpo di stato furono controverse: la destra non partecipò e la stampa cilena raccontò come il governo di Gabriel Boric, presidente di sinistra, ridimensionò i più ampi progetti iniziali per questioni di opportunità. Un grande evento rischiava di aumentare le tensioni in anni già molto agitati dal punto di vista politico, dopo le grandi proteste di piazza del 2019 e i vari tentativi di modificare la Costituzione che ne seguirono, tutti falliti.
Gli abitanti del Cile non hanno una memoria condivisa su nulla: vale per il passato e i simboli coloniali, messi in discussione solo da una parte della società; vale per alcuni eventi storici che portarono alla fondazione dello stato, contestati dai discendenti dei popoli nativi, in particolare i mapuche; vale soprattutto per la storia più recente, quella del colpo di stato del 1973 e della dittatura durata fino al 1988, responsabile di enormi violazioni dei diritti umani e che causò la morte di più di 3.200 persone cilene. Ogni aspetto della sua storia è visto, raccontato e interpretato in modi anche molto diversi. Non succede solo in Cile, ma lì è più evidente, perché coinvolge tutto e perché la storia degli ultimi cinquant’anni è stata più traumatica che altrove.
L’11 settembre del 1973 la presa di potere da parte dei militari iniziò con un atto clamoroso: l’esercito cileno bombardò il palazzo presidenziale. Salvador Allende, il presidente socialista eletto democraticamente, morì nell’assalto, probabilmente suicida.
Il palazzo è stato restaurato e in parte ricostruito nel 1981, ma per anni a Santiago rimasero le macerie e i segni del bombardamento. Quelle macerie sono finite al centro di una storia su patrimonio, memoria del passato e crimini contro l’umanità.
Francisco Pancho Medina oggi è un artista, quindici anni fa era un attore di telenovelas: la madre di un’amica era una sua fan, e un giorno lo invitò a casa. Gli raccontò che la piccola abitazione in cui si trovavano, in un quartiere popolare nella parte ovest di Santiago, era stata costruita sulle macerie della Moneda. La donna al tempo lavorava in un bar vicino al palazzo presidenziale, dove andavano a mangiare gli operai che si occupavano di ricostruire la Moneda. Li vedeva spesso portare via con dei camion le macerie, che venivano scaricate nel fiume Mapocho.
In quegli anni lei aveva comprato un terreno dove costruire una casa: ma non era un terreno in piano, c’era un avvallamento. Chiese agli operai se potessero portare un po’ dei “rifiuti” della Moneda a casa sua, per livellare il terreno: nei giorni successivi arrivarono un paio di camion con le macerie del palazzo presidenziale bombardato. Dice Medina: «Quella storia, che mi aveva colpito subito, mi è tornata in mente nel 2023, mentre cercavo un soggetto per ricordare i cinquant’anni del golpe». Ricontattò la donna, che aveva ceduto la casa a una nipote, e le chiese di autorizzarlo a scavare nel giardino di casa sua per riportare alla luce «il corpo della Moneda».
Insieme a Nona Fernández, scrittrice, Paz Errázuriz, fotografa, e Flora Vilches, archeologa, iniziò a cercare i fondi per il progetto: non fu facile spiegare cosa volesse fare, ma alla fine a marzo 2023 partirono gli scavi. La squadra di archeologi mise in guardia Medina: «Mi dissero che se anche avessimo trovato cose compatibili con la Moneda, scientificamente sarebbe stato impossibile garantire che venivano da lì».
Andò più o meno così. Al terzo buco che scavarono nel giardino, profondo un metro, trovarono alcuni pezzi di mattonelle che in anni precedenti venivano utilizzate per i marciapiedi dei quartieri principali, quelli del centro (e intorno al palazzo presidenziale). Trovarono anche alcuni chiodi risalenti al XVIII secolo, quello in cui fu costruito il palazzo presidenziale.
La certezza scientifica non poteva esserci, ma era possibile che venissero da lì e l’interesse di Medina era un altro: «Il mio intento poetico e politico era recuperare il “corpo” della Moneda, recuperare quei resti come se fossero le prove di un crimine», dice. Secondo Medina, il recupero richiamava la ricerca dei resti dei desaparecidos da parte delle loro famiglie, «a volte costrette e seppellire un oggetto, un osso, un dente, un pezzetto dei loro familiari, unici mezzi rimasti per identificarli». I desaparecidos sono le persone scomparse in Sud America durante le dittature di destra degli anni Settanta e Ottanta, quando furono attuati piani per eliminare ogni forma di opposizione e dissenso.
«Al tempo stesso mi piaceva l’idea che il sogno di un’utopia democratica di Allende, distrutto dai bombardamenti, fosse stato interrato come un seme nel giardino di una famiglia umile, che ha costruito lì sopra la sua casa e il suo futuro», aggiunge Medina.
Racconta che insieme ad altri pezzi della Moneda, trovati abbandonati in depositi governativi, quei detriti sono stati oggetto di un’esposizione al Centro Cultural La Moneda, con pochi fondi e poche attenzioni in Cile (ma più all’estero) e che da allora lui è diventato una sorta di riferimento per chi in giro per il paese ritrova pezzi del palazzo presidenziale. Succede in luoghi diversi, dice: «Una balaustra in una villa sul mare a Concepción, nel sud, un sottotetto usato per costruire una mini tribuna in un campo da calcetto in un’università di Santiago».
Il tema della salvaguardia del patrimonio e della memoria storica è particolarmente complesso in Cile, oltre che essere una questione emersa soprattutto negli ultimi 20 o 25 anni (non era stata affrontata subito dopo la fine della dittatura).
La principale iniziativa in questa direzione fu l’apertura nel 2010 del Museo della Memoria e dei diritti umani, a Santiago, per volontà della presidente Michelle Bachelet. Il museo racconta il colpo di stato, la dittatura, la repressione politica, le torture, le uccisioni e le violazioni dei diritti umani. Il racconto termina con il referendum che nel 1988 mise fine al governo di Pinochet e con la transizione democratica che seguì. Non c’è una sala dedicata a ciò che accadde dopo: l’ex dittatore rimase capo delle forze armate fino al 1998 e senatore a vita fino al 2006, quando morì; fu arrestato una prima volta a Londra, nel 1998, per iniziativa della magistratura spagnola, mentre in patria non ci fu alcun processo.
In Cile il museo è contestato e nel 2015 Mauricio Rojas, ministro della Cultura del governo di Sebastian Piñera, lo descrisse in un libro come «una montatura e una manipolazione della storia». Fu poi costretto a dimettersi, ma le critiche sono continuate: la destra sostiene che dovrebbe raccontare la crisi politica precedente al colpo di stato (che nella loro visione lo giustificherebbe). Nel 2023 il parlamento ha deciso la sospensione del finanziamento diretto del museo da parte dello stato, mentre le scuole dei quartieri più ricchi e conservatori spesso non organizzano gite lì, anche solo per evitare polemiche interne.
Paolo Hutter è un giornalista italiano che a 21 anni fu testimone del colpo di stato di Pinochet, venendo anche arrestato dai militari. «Parlando del sostegno attuale alla dittatura, bisognerebbe vedere la cosa in prospettiva: quando nel 1988 c’è stato il referendum Pinochet lo ha perso, ma il 44 per cento degli elettori ha votato a favore di un prolungamento del suo mandato, il che significa che quasi metà dei cileni lo approvava», dice. «Poi quella percentuale è andata scendendo dagli anni 10 agli anni 20 [del Duemila] fino a una quota bassissima, ma poi è risalita perché in Cile continua a esistere una forte corrente di destra».
Dopo l’arresto Hutter venne portato nell’Estadio Nacional, allora luogo di detenzione e oggi uno dei circa 50 siti della memoria presenti in tutto il paese, per lo più concentrati nella zona di Santiago. La loro istituzione, spesso avvenuta negli ultimi anni, è sempre oggetto di polemiche politiche e il reperimento dei fondi non è mai facile. Il museo dedicato a Violeta Parra, artista e cantautrice cilena che raccolse la tradizione folcloristica del paese, durante le proteste del 2019 bruciò in un incendio di cui non sono mai state identificate con certezza le cause. I finanziamenti per restaurarlo non sono mai arrivati, nonostante i danni non siano strutturali.
Su molti temi, in Cile manca una base di partenza comune e condivisa a tutta la popolazione: persino la condanna delle violazioni dei diritti umani non è un elemento trasversalmente accettato. La cosa appare piuttosto evidente nel Cimitero generale di Santiago, nel quartiere di Recoleta, dove sono sepolti vari personaggi illustri della storia della nazione.
Le tombe dei militari, dei generali che ottennero vittorie su popolazioni indigene e degli eredi dei primi colonizzatori sono state imbrattate, vandalizzate e ricoperte di scritte durante le proteste del 2019. Il memoriale dei Carabineros, la polizia cilena, è presidiato durante tutte le ore di apertura da un’auto delle forze dell’ordine. La tomba di Jaime Guzmán, consigliere di Pinochet ucciso nel 1991 dal Fronte Patriottico Manuel Rodríguez, un’organizzazione paramilitare comunista, è stata attaccata così tante volte che non viene nemmeno più restaurata.
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A queste contestazioni di sinistra ne corrispondono altre di destra: la più evidente è quella che riguarda la tomba di Salvador Allende, sul cui nome è stata disegnata una X, mentre sul resto del monumento funerario compaiono insulti e scritte come “Viva Pinochet”: anche in questo caso le tombe restano così, al massimo le scritte vengono coperte con altre scritte.
La battaglia sui simboli e sui monumenti ebbe il suo culmine durante le proteste del 2019, quando si sviluppò uno scontro simbolico intorno alla statua a cavallo del generale Manuel Baquedano, che vinse la guerra del Pacifico contro la Bolivia e il Perù (1879-1884) ma ebbe anche un ruolo fondamentale nell’occupazione del territorio mapuche dell’Araucania e nella repressione delle popolazioni locali. Durante le proteste i manifestanti dipinsero la statua, la martellarono e la decorarono in vario modo. Il governo la fece ripulire più volte, provò a proteggerla con dei teli e poi con un presidio costante di polizia, ma non funzionò. Infine la rimosse per restaurarla e da allora non è mai tornata: oggi c’è un piedistallo vuoto.
Sarà la stessa piazza che la ospitava a cambiare: in piazza Baquedano, anche detta Italia e poi Dignidad, sono in corso dei lavori urbanistici che ne modificheranno la struttura. Secondo i movimenti studenteschi, è un modo per cancellare la memoria di quei giorni e di quei fatti. Anche le proteste, in modo poco sorprendente, sono diventate un tema divisivo per la società cilena, nonostante cinque anni fa furono molto partecipate.
Solo un simbolo finora sembra essere sfuggito alle dispute politiche: la bandiera, che qualche settimana fa era appesa e ben visibile ovunque, a Santiago e nel resto del paese. Non era però una spontanea dimostrazione di patriottismo: in Cile per la festa nazionale del 17 e 18 settembre (Fiestas patrias) ogni casa ha l’obbligo di legge di esporne una.
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