Il paese di origine influenza le gerarchie nei gruppi di lavoro?

Una ricerca recente mostra come alcuni pregiudizi inconsci portino ad attribuire qualità da leader anche in base alla nazionalità

Ursula von der Leyen festeggia in aula alzando le mani e stringendo i pugni
Ursula von der Leyen dopo la sua rielezione a presidente della Commissione Europea (Johannes Simon/Getty Images)
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La rappresentazione di gruppi sociali, culturali ed etnici diversi nella politica, nelle università e nelle istituzioni è da alcuni anni un frequente argomento di discussioni, spesso molto accese e difficili, riguardo ai mezzi per contrastare le discriminazioni. Un tema in parte simile è da tempo oggetto di attenzioni anche nel campo dell’amministrazione d’impresa e della gestione delle risorse umane nei gruppi di lavoro multinazionali: l’influenza del paese di origine delle persone sulla distribuzione degli incarichi di leadership.

Una ricerca pubblicata sulla rivista Journal of World Business, condotta da due ricercatrici e un ricercatore di tre diverse business school d’Europa, ha analizzato l’influenza che la nazionalità di provenienza di chi occupa ruoli di leadership ha sulla percezione delle sue capacità da parte di altre persone di pari competenze nei gruppi di lavoro multinazionali. L’ipotesi sostenuta nella ricerca è che la nazionalità influisca sull’attribuzione di qualità da leader spesso in modi di cui le persone non sono consapevoli, attraverso pregiudizi inconsci.

Se in un gruppo di lavoro ci sono persone in una posizione paritaria provenienti da Spagna, Brasile, Germania, Colombia e Stati Uniti, per esempio, alcune di loro potrebbero essere inconsapevolmente inclini a credere che quelle statunitensi e tedesche siano portate per la leadership, anche nei casi in cui il paese di origine non sia un fattore pertinente rispetto al lavoro da svolgere. È un esempio proposto sul sito The Conversation da uno degli autori della ricerca, Yih-Teen Lee, insegnante della IESE Business School dell’università di Navarra, a Barcellona, e in passato direttore di diversi progetti di ricerca per organizzazioni internazionali tra cui l’UNICEF e il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP).

La ricerca ha studiato le relazioni all’interno di 145 gruppi di lavoro composti da oltre mille professionisti di diverse nazionalità iscritti a un programma MBA (Master of Business Administration, una laurea specialistica per la gestione di aziende) di una business school europea. Il tipo di lavoro richiesto dall’MBA e la struttura del corso erano simili per tutti i gruppi, e i partecipanti hanno lavorato quotidianamente a vari progetti di gruppo, collaborando a stretto contatto, per tre o quattro mesi.

Tutti i partecipanti ricoprivano una posizione paritaria all’interno del loro gruppo, ed erano tenuti ad assumere responsabilità da leader nei diversi progetti: in teoria chiunque poteva assumere quel ruolo, a seconda del compito richiesto in ciascun progetto. Lee e le altre due autrici della ricerca – Gouri Mohan della IÉSEG School of Management a Puteaux, in Francia, e Minna Paunova della Copenhagen Business School – hanno scoperto che i membri dei gruppi di lavoro tendevano a valutare l’appropriatezza al ruolo di leader di ciascuno in base alla sua nazionalità più che alle competenze specifiche utili per il compito richiesto.

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Per valutare le percezioni delle persone all’interno dei gruppi Mohan, Paunova e Lee hanno utilizzato due parametri noti nella psicologia sociale, che misurano caratteristiche ritenute fondamentali per l’efficienza delle leadership: la socievolezza o “calorosità” nelle relazioni (warmth) e l’abilità nel portare a termine correttamente determinati compiti (competence).

Al primo parametro, la calorosità, sono associati tratti positivi come l’affidabilità, la sincerità e la cordialità, che tendono a suscitare apprezzamento ed empatia, al contrario dei corrispondenti tratti negativi (inaffidabilità, disonestà e immoralità). Al secondo parametro, la competenza, sono associati tratti positivi come l’abilità, la reattività e l’intelligenza, e tratti negativi come l’incapacità, l’indecisione e la pigrizia. Generalmente i membri del gruppo percepiti come più competenti ricevono migliori valutazioni e hanno più influenza decisionale e maggiori opportunità di leadership.

Un risultato non sorprendente emerso dalla ricerca riguardo al primo parametro è che tra tutti i membri del gruppo le persone trovavano più cordiali e più affini quelle a loro connazionali. È un dato non sorprendente, hanno scritto le autrici e l’autore, perché è facilmente spiegabile attraverso un concetto noto nelle scienze sociali, l’omofilia: la tendenza tra individui simili ad associarsi e legarsi tra loro, particolarmente potente quando le persone si incontrano per la prima volta. La nazionalità condivisa era un fattore che permetteva alle persone del gruppo di creare legami più rapidamente.

Riguardo al secondo parametro i risultati della ricerca hanno invece mostrato una relazione tra la competenza percepita e il grado di sviluppo del paese d’origine delle persone. Prendendo come riferimento l’indice di sviluppo umano (HDI, un indicatore statistico multifattoriale delle Nazioni Unite che considera aspettativa di vita, istruzione e reddito pro capite), le persone provenienti da paesi con indice più alto erano considerate più competenti di quelle provenienti da paesi con indice più basso.

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In sostanza la nazionalità di ciascuna persona era per tutte le altre un indicatore di status, in grado di condizionare le percezioni del gruppo. «Questa è una buona notizia per i dipendenti che provengono da luoghi come gli Stati Uniti e l’Europa, che potremmo supporre abbiano avuto accesso a una migliore istruzione, assistenza sanitaria e altre risorse sociali», ha scritto Lee. E le differenze si riflettono anche all’interno dell’Europa, il che può essere «una buona notizia per i tedeschi e i norvegesi nel tuo gruppo, ma non così buona per quelli provenienti da Polonia o Albania».

Secondo Mohan, Paunova e Lee i risultati relativi alla competenza, a differenza di quelli relativi alla calorosità, sono sorprendenti. Contraddicono infatti una delle ipotesi di partenza della ricerca, formulata proprio in base al principio dell’omofilia: l’ipotesi che nella considerazione dei potenziali leader del gruppo le persone avrebbero preferito persone appartenenti al loro stesso intragruppo culturale, e cioè connazionali. Questa correlazione invece non è emersa: al contrario, «tra persone dello stesso paese è emersa competizione per posizioni di leadership, anziché sostegno reciproco», ha scritto Lee.

I risultati della ricerca non implicano che la nazionalità delle persone nei gruppi di lavoro sia un dato necessariamente fuorviante per le loro valutazioni. Altre ricerche relativamente recenti di psicologia hanno analizzato l’influenza che specifiche differenze culturali legate al paese di origine possono avere, per esempio, sull’adattamento delle persone negli ambienti di lavoro.

Una ricerca pubblicata nel 2020 sulla rivista scientifica PNAS cercò di spiegare la sottorappresentazione di alcune popolazioni asiatiche nelle posizioni di leadership negli Stati Uniti: una situazione a volte descritta con l’espressione “soffitto di bambù” (un riferimento all’espressione “soffitto di cristallo”, utilizzata per indicare gli ostacoli che impediscono il raggiungimento della parità tra i generi). Scoprì alcune differenze significative confrontando i due sottogruppi asiatici più grandi: quello orientale, tra cui i cinesi, e quello meridionale, tra cui gli indiani.

Dai risultati degli studi analizzati emerse che gli asiatici orientali avevano in generale meno probabilità di ottenere ruoli di leadership rispetto agli asiatici meridionali e ai bianchi, mentre le probabilità degli asiatici meridionali superavano persino quelle dei bianchi. Considerando i dati demografici e altri fattori, l’analisi suggerì che rispetto al gruppo asiatico meridionale quello orientale non subiva maggiori pregiudizi (ne subiva meno, anzi) e aveva lo stesso livello di motivazione nel lavoro e nella leadership. Nelle relazioni interpersonali mostrava però meno fermezza nelle decisioni e sicurezza di sé, ritenute qualità fondamentali di una leadership nella cultura statunitense.

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Secondo le autrici e l’autore della ricerca pubblicata sul Journal of World Business, man mano che i gruppi di lavoro multinazionali diventano più eterogenei e inclusivi, anche per effetto della crescente diffusione nel mondo di tecnologie per il lavoro a distanza, è necessario studiare e comprendere meglio le ripercussioni che possono avere le percezioni della competenza influenzate dal paese di origine delle persone all’interno dei gruppi. Le aziende non dovrebbero considerare la nazionalità come un dato biografico neutro, simile a un indirizzo, ma dovrebbero essere consapevoli delle implicazioni che ha sul lavoro di squadra e sulle gerarchie nelle organizzazioni, per cercare di limitare il rischio di pregiudizi.

«Ogni membro del gruppo, che provenga dalla Svizzera o dal Sud Sudan, dovrebbe essere giudicato in base alla sua effettiva competenza nella leadership, piuttosto che in base alla percezione della competenza legata al suo paese di origine», ha scritto Lee.