• di Federica Sgorbissa
  • Storie/Idee
  • Mercoledì 23 ottobre 2024

L’uomo e altri animali bugiardi

«L’intelligenza sembra andare a braccetto con la capacità di raccontare e di mentire. E questo braccetto è la socialità. Significa che non c’è nulla di così diverso o speciale in noi esseri umani? Forse no. La ricerca scientifica sulla cognizione animale negli ultimi decenni ha abbattuto un bel po’ di pregiudizi, mostrando come la nostra intelligenza sia diversa da quella di altri animali quantitativamente più che qualitativamente. Abbiamo trovato esempi di animali che più o meno fanno quasi tutte le cose che facciamo noi, almeno in maniera rudimentale. Perfino mentire»

Regno Unito, circa 1934 (Topical Press Agency/Getty Images)
Regno Unito, circa 1934 (Topical Press Agency/Getty Images)

Da bambina ero in fissa con Pippi Calzelunghe. La adoravo ma mi irritava perché non riuscivo a decidere se la mia eroina fosse una geniale inventrice di storie o una bugiarda patologica. Oggi, quel dubbio mi sembra un po’ ingenuo. Non sono né la prima né la più titolata fra coloro che credono che bugia e narrazione siano due facce della stessa medaglia, se non addirittura la stessa cosa. Si tratta in effetti di un tema piuttosto esplorato in ambito letterario, prima e dopo il bambino che gridava «al lupo al lupo» di Nabokov. Se ne ragionava qualche mese fa nella puntata di Globo in cui Eugenio Cau intervistava lo scrittore spagnolo Javier Cercas.

– Ascolta anche: Una conversazione sulle bugie, con Javier Cercas

Non è solo il mondo della letteratura, però, a interessarsi alle bugie. Anche le neuroscienze e la psicologia cognitiva le studiano per capirne le basi cognitive e cerebrali, e spesso sembrano suggerire che mentire, attività socialmente biasimata, richieda in realtà processi molto sofisticati che potrebbero addirittura aver contribuito all’evoluzione della nostra intelligenza.

Bisogna però prima intenderci su cosa sia una bugia. Se mentire è semplicemente dire qualcosa di falso, la distinzione tra bugia e storytelling diventa molto sfumata, perché le storie sono quasi sempre inventate, in un certo senso anche quando raccontano qualcosa di vero. Mi spiega Marco La Rosa, autore del libro Neuroscienze della narrazione: «I narratologi sostengono che le narrazioni siano intrinsecamente false, cioè la narrazione è sempre falsa. Se andiamo a vedere bene, non esiste differenza tra narrazione vera e narrazione falsa. Ogni volta che raccontiamo qualcosa dobbiamo necessariamente fare un’operazione di riduzionismo selezionando alcuni elementi e raccontando quello che vogliamo».

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A distinguere fra bugia e narrazione non può neppure essere l’intenzione di ingannare perché anche chi racconta storie è consapevole di inventare, anzi, chiede a chi lo ascolta di “sospendere l’incredulità” – almeno temporaneamente – e di accondiscendere all’inganno facendo “come se” il racconto fosse vero. Qualcuno sostiene che l’unico tratto genuinamente di pertinenza della bugia sia l’inganno, il fatto di mentire per un proprio tornaconto, spesso a danno dell’altro, ma è vero che anche chi racconta lo fa spesso per avere un vantaggio, benché raramente per danneggiare qualcuno. È possibile quindi che più che di una dicotomia netta si tratti di un continuum, di un percorso graduale dove ognuno di noi può decidere il punto in cui mettere l’asticella che separa il racconto dalla menzogna. Ovvio che per farlo occorre credere che una distinzione ci sia.

«Una delle cose che servono per mentire», mi dice Vittorio Gallese, professore di psicobiologia all’Università di Parma, «è possedere il concetto di vero o falso». Nella sua carriera di scienziato, Gallese ha letteralmente scritto un pezzetto di storia delle neuroscienze, avendo contribuito all’osservazione dei neuroni specchio insieme a Giacomo Rizzolatti. È, fra le altre cose, esperto di studi sull’empatia, la capacità di mettersi nei panni e nella testa degli altri.

Per Gallese non può esistere bugia senza negazione, senza una coscienza di ciò che “non è”, che è anche la premessa per “fare finta di”. «Questa è una delle basi delle attività di gioco, negli esseri umani ma anche negli altri animali. Anche i gattini, quando giocano facendo la lotta, fingono». Ed è buffo perché mentre mi parla in videochiamata, vedo sbucare nell’inquadratura le zampe del suo gatto che cercano di acchiappare le sue mani mentre gesticola.

Anche i cuccioli umani, specialmente fra i due e i sette anni, si impegnano spontaneamente in quello che gli psicologi chiamano pretend play, una versione “baby” dei giochi di ruolo: travestirsi, fare finta di essere qualcun altro, inventare storie fantastiche vivendole “come se” fossero vere. Il famoso «facciamo che io ero». È anche abbastanza frequente che in quella stessa età i bambini inventino frottole fantasiose. La letteratura scientifica ha collegato queste attività in età precoce allo sviluppo di importanti capacità cognitive e sociali, come il pensiero simbolico, la teoria della mente (cioè la capacità di attribuire agli altri stati mentali come intenzioni e desideri), e il ragionamento controfattuale («cosa succederebbe se…?»).

La mente umana si sviluppa in un contesto sociale: per questo il gioco in cui si inventano diverse possibilità e modi di essere mentre si sta in un gruppo rappresenta un momento cruciale dello sviluppo. «Si parte dal noi per arrivare all’io e al tu, non viceversa», dice Gallese. «L’essere umano più di altri è un animale neotenico: il nostro cervello alla nascita ha meno di un terzo del volume che acquisterà da adulto, questo vuol dire che la gran parte della crescita intellettiva avviene in un contesto sociale. I cognitivisti parlano espressamente di lettura o teoria della mente».

Proprio la “teoria della mente” (ToM, per chi la studia) è uno dei prerequisiti della bugia. Secondo la letteratura cognitivista, per inventare qualcosa di falso e far sì che l’altro ci creda (ricordate la questione dell’intenzione, vero?), abbiamo bisogno di comprendere che anche gli altri hanno una vita interiore. Dobbiamo inoltre saper capire che tipo di reazioni, pensieri, ma anche emozioni, provochiamo nell’altro. La domanda è: siamo l’unica specie ad avere coscienza dei pensieri altrui o condividiamo questa preziosa capacità con altri animali?

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Scoprire che cosa capiscano della mente altrui animali che non parlano non è semplice. Negli ultimi cinquant’anni circa, però, i cognitivisti hanno sviluppato una serie di metodi che, sulla base dell’osservazione del comportamento, suggeriscono l’esistenza o meno della ToM negli animali e nei bambini molto piccoli, i quali iniziano a sviluppare un’intuizione rudimentale degli stati mentali altrui verso i quattro anni per arrivare alla consapevolezza intorno ai sei. Queste ricerche oggi ci dicono che, almeno a un certo livello, potrebbero possedere la ToM anche altre specie animali, come i cani, gli scimpanzé e i corvidi.

Uno dei sette corvi della Torre di Londra intrattiene i visitatori. Narra la leggenda che quando l’ultimo corvo abbandonerà la torre, l’Impero britannico finirà. Londra, 23 maggio 1956 (Chris Ware/Keystone Features/Getty Images)

Mi racconta Gallese: «Anni fa, vidi dei filmati pubblicati se non sbaglio da Nicola Clayton», una famosa scienziata autrice di numerosi studi sulla cognizione nei corvidi, «che mostravano un corvo far credere a un altro di nascondere il cibo in una certa posizione, quando in realtà lo nascondeva altrove per portarlo fuori strada». Anche a me è capitato di vederne uno che mi ha lasciato di stucco: c’è una femmina di cornacchia intenta a giocare con una pietra nera e lucente quando all’improvviso arriva il maschio, il suo compagno (le cornacchie formano coppie stabili), e le ruba il gioco. La femmina prima protesta, inutilmente, ma poi cambia strategia. Volge lo sguardo altrove e saltellando se ne va a rovistare in un altro punto, mostrando interesse per qualcos’altro di imprecisato. Vedendola il maschio perde interesse per la pietra e la raggiunge per vedere che cosa la interessi tanto. A quel punto, la femmina si catapulta a riprendersi la sua pietra, finalmente tutta per sé.

Invito tutti alla cautela nell’interpretare il comportamento animale secondo il nostro metro umano, specie nei video che troviamo in rete – che hanno spesso alte percentuali di staging, cioè di messa in scena – ma comportamenti simili, come conferma Gallese, sono stati osservati anche in laboratorio: nel caso del video sembra davvero che la femmina abbia giocato non solo con la pietra, ma anche con gli stati mentali del maschio bullo. Non si comporta soltanto come se avesse compreso i “pensieri” dell’altro, ma mette anche in atto un comportamento per ingannarlo, facendogli interpretare erroneamente i suoi stati mentali. Fingendo di interessarsi a qualcos’altro, cioè, la cornacchia mente deliberatamente al suo compagno. Se le cornacchie, gli esseri umani, i cani e gli scimpanzè danno prova di saper mentire quando serve, viene dunque da chiedersi se ci sia qualcosa che li unisce.

Qualche decennio fa Robin Dunbar, un neuroscienziato molto famoso – avrete forse sentito parlare del discusso numero di Dunbar – ha provato a spiegare la vertiginosa crescita del volume del cervello (e delle conseguenti capacità cognitive) nelle specie Homo sapiens e Homo neanderthalensis, avanzando l’ipotesi del “cervello sociale”. (Il cervello dei Neanderthal era più grosso del nostro ma meno sviluppato nella parte frontale, quella che in noi è dedicata alle più sofisticate operazioni di pensiero e decision making).

Per Dunbar le pressioni selettive sul nostro cervello sono andate nella direzione di sviluppare a dismisura la nostra capacità di pensare non tanto per rispondere alle sfide dell’ambiente naturale – altrimenti avremmo osservato una cosa simile anche nella maggior parte degli altri animali – ma a quelle del nostro ambiente sociale. Nel suo articolo più famoso sul tema, Dunbar cita esplicitamente il mentire fra le attività per cui la nostra intelligenza si è specializzata. Insomma, se abbiamo un cervello così grosso, almeno secondo Dunbar, lo dobbiamo anche alle bugie.

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Teorie di così ampio respiro in ambito evolutivo sono difficili da provare, ma sono suggestioni utili a unire qualche puntino, per esempio il fatto che nella vita degli esseri umani, degli scimpanzé e dei corvidi le interazioni sociali prendono una bella fetta di tempo e di energia. Intelligenza e bugie sembrano dunque andare a braccetto l’una con le altre. E questo braccetto sembra essere la socialità.

Significa che non c’è nulla di così diverso o speciale in noi esseri umani? Forse no. La ricerca scientifica sulla cognizione animale negli ultimi decenni ha abbattuto un bel po’ di pregiudizi, mostrando come la nostra intelligenza sia diversa da quella di altri animali quantitativamente più che qualitativamente. Sappiamo fare più cose tutte insieme, ma abbiamo trovato esempi di animali che più o meno fanno quasi tutte le cose che facciamo noi, almeno in maniera rudimentale. Perfino mentire.

Una possibile distinzione me la suggerisce ancora Vittorio Gallese, che quest’anno insieme a Ugo Morelli ha pubblicato il libro Cosa significa essere umani?: «Magari certi animali usano dei trucchi per sembrare più grandi. Ci sono addirittura delle forme di mimetismo che mimano parti del corpo come occhi minacciosi per impedire al predatore di attaccare, ma nessun corvo, per quanto ne so io, fa finta di essere un’aquila». La narrazione rientra dalla porta sul retro. «Negli altri animali non esiste la letteratura, non esiste il cinema, non esiste il teatro. Non esiste soprattutto la finzione che è la rappresentazione: nessun animale costruisce una rappresentazione del mondo in cui vive. Per ogni animale che non sia umano c’è un mondo solo. Noi ne abbiamo infiniti».

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Federica Sgorbissa
Federica Sgorbissa

Vive e lavora a Trieste, la “città dei matti” ma anche della scienza, di cui ha raccontato la storia in un libro di cui è coautrice. È giornalista scientifica e scrive di psicologia, salute mentale e neuroscienze. Il suo podcast più recente, Paper, racconta come funziona la scienza e cosa vuol dire “pubblicarla”.

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