Storia del sintetizzatore che cambiò la musica leggera

Lo inventò sessant’anni fa l’ingegnere statunitense Robert Moog, che gli diede il nome che ha ancora oggi

Un Moog modulare suonato nel 1971 dal musicista canadese Mort Garson, in piedi, e dal tecnico del suono Gene Hamblin. (AP Photo/David F. Smith)
Un Moog modulare suonato nel 1971 dal musicista canadese Mort Garson, in piedi, e dal tecnico del suono Gene Hamblin. (AP Photo/David F. Smith)

Sessant’anni fa Robert Moog, un ingegnere statunitense che stava completando un dottorato alla Cornell University nello stato di New York, presentò un’invenzione che avrebbe cambiato la storia della musica leggera. Accadde il 12 ottobre del 1964, durante un convegno di ingegneri del suono organizzato al Barbizon-Plaza Hotel di New York, quando mostrò per la prima volta il funzionamento di un apparecchio elettronico che portava il suo nome, e che di lì a qualche anno avrebbe cambiato la storia della musica leggera: il Moog, il sintetizzatore più famoso al mondo.

Moog lo aveva realizzato su richiesta di Herb Deutsch, un compositore statunitense che cercava un apparecchio in grado di riprodurre suoni  ricercati e non replicabili dagli altri strumenti elettronici disponibili al tempo.

Come concetto, i sintetizzatori non erano una novità: già nella prima metà del Novecento, diversi fisici avevano sperimentato dei modi per produrre dei suoni partendo direttamente da segnali elettrici e non da una fonte acustica collegata a un circuito di amplificazione (una voce in un microfono, le corde di una chitarra elettrica in un pick up).

Nel 1919 per esempio il fisico russo Lev Sergeyevich Termen inventò il theremin, considerato uno dei primi strumenti elettronici di sempre. Fondamentalmente si tratta di una scatola con due antenne (una serve a controllare l’altezza del suono, l’altra la sua intensità) che si suona avvicinando e allontanando la mano da un’asta in metallo, producendo suoni di frequenze diverse a seconda della distanza.

Lo stesso Moog cominciò ad appassionarsi all’elettronica applicata alla musica proprio grazie al theremin, di cui venne a conoscenza leggendo un numero della rivista Electronics World nel 1949, quando aveva 14 anni. Da quel momento in poi iniziò a costruirne di propri, vendendoli insieme a suo padre nella loro casa nel distretto del Queens, a New York.

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Negli anni successivi questi apparecchi cominciarono a essere associati a delle tastiere analoghe a quelle dei pianoforti, essenzialmente per una questione di comodità: erano infatti i supporti più semplici con cui comporre e suonare una serie di note. Da questo punto di vista l’esempio più celebre fu probabilmente il Novachord, un sintetizzatore polifonico (ossia in grado di produrre più suoni contemporaneamente, e quindi gli accordi) creato dall’ingegnere statunitense Laurens Hammond nel 1938.

Un Moog modulare suonato dal compositore giapponese Isao Tomita, Tokyo, 30 giugno 1976 (AP Photo)

L’apparecchio che Moog presentò nel 1964, però, aveva altre caratteristiche: fu uno dei primi sintetizzatori modulari, ossia componibili combinando su un telaio moduli diversi, che apparivano come scatole in legno ricoperte da un lato di potenziometri, interruttori e fori in cui inserire i cavi per collegarli tra loro. A comandare i vari moduli era una semplice tastiera con la quale si poteva scegliere la nota da suonare, una per volta (non era quindi polifonico).

Ciascun modulo svolgeva un compito diverso: avevano nomi che sono ancora oggi quelli comunemente utilizzati quando si parla di sintetizzatori, come oscillatori, filtri, generatori di inviluppo, e contribuivano tutti alla definizione del suono finale.

Robert Moog prova un sintetizzatore prima di un concerto al Museum of Modern Art di New York, 28 agosto 1969 (AP Photo/John Lent)

Semplificando molto, il sistema progettato da Moog funzionava così: scegliendo una nota della tastiera si azionava un segnale elettrico di un determinato voltaggio, che passava inizialmente attraverso un oscillatore, il modulo più importante. Ancora oggi serve a definire la forma d’onda del segnale, che può essere sinusoidale, quadra, a dente di sega o triangolare (ma in realtà di infiniti tipi diversi) e che determina il timbro del suono. Dopo gli oscillatori, il segnale passava attraverso i vari moduli collegati, che aggiungevano altre caratteristiche ed effetti, ed era amplificato attraverso transistor al silicio, ottenendo così il suono finale.

Il Moog fu un successo istantaneo: nel giro di qualche anno fu adottato da sempre più musicisti, prima quelli più sperimentali e poi anche quelli più popolari. A farlo conoscere al mondo fu in particolare la tastierista Wendy Carlos, che nel 1968 pubblicò Switched-On Bach, un disco in cui suonò con un Moog diverse arie e l’intero Concerto brandeburghese n. 3 di Johann Sebastian Bach, che vendette centinaia di migliaia di copie in pochi mesi.

Il musicista canadese Mort Garson (a destra) e il tecnico del suono Gene Hamblin davanti a un sintetizzatore Moog, 1971 (AP Photo/David F. Smith)

Assieme a Carlos – che peraltro avrebbe fatto la transizione di genere qualche anno dopo, diventando una delle prime grandi musiciste dichiaratamente transgender di sempre – contribuirono alla popolarità del Moog gruppi progressive come Tangerine Dream, Yes e Emerson, Lake & Palmer. Successivamente l’utilizzo del Moog fu sdoganato anche nella musica più ascoltata dal grande pubblico: lo utilizzarono per esempio i Beatles e i Rolling Stones.

Il Moog diventò insomma sinonimo di sintetizzatore: si impose come standard per quelli che seguirono assieme a un altro influente modello prodotto contemporaneamente sulla costa opposta degli Stati Uniti dall’ingegnere californiano Don Buchla. Lo strumento di Don Buchla si basava però su una concezione per molti versi opposta di sintesi musicale, che le riviste musicali del tempo definirono West Coast Synthesis. Il Buchla era infatti un sintetizzatore decisamente meno intuitivo e versatile rispetto al Moog, e in particolare per un motivo: non utilizzava una tastiera come strumento di comando, la sua forma ricordava più un complesso pannello di controllo.

Don Buchla decise volontariamente di non basarsi su un supporto comodo come una tastiera per incoraggiare i musicisti a sperimentare maggiormente, senza lasciarsi condizionare da una combinazione di tasti finita che, a suo dire, induceva i musicisti a prendersi pochi rischi. Tra gli anni Sessanta e Settanta, la rivalità tra Buchla e Moog e tra le loro concezioni di sintesi musicale antitetiche (quella della West Coast, più cervellotica e sperimentale, e quella della East Coast, più intuitiva e aperta a chiunque) fu estesamente raccontata dalle riviste di settore.

Sul lungo periodo, però, l’approccio pragmatico di Moog ebbe la meglio: il suo sintetizzatore ebbe un impatto sulla musica popolare decisamente superiore a quello di Buchla, grazie alla sua maggiore duttilità. Tra gli anni Sessanta e Settanta, i principali concorrenti di Moog nel mercato dei sintetizzatori diventarono produttori giapponesi con una consolidata esperienza nella produzione di tastiere, come Yamaha, Roland e Korg.

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Il Moog aveva anche i suoi problemi. Gli oscillatori si surriscaldavano facilmente e questo disturbava il funzionamento dello strumento, che poteva produrre facilmente note stonate. Questa imprevedibilità poteva rivelarsi addirittura un vantaggio per i musicisti attratti da suoni più fantascientifici e sbilenchi, ma di fatto rendeva il Moog uno strumento inaffidabile per le esibizioni dal vivo, e che quindi veniva usato principalmente in studio di registrazione.

Le cose cambiarono nel 1970, quando fu messo in commercio il Minimoog, il primo sintetizzatore portatile e venduto a un prezzo più accessibile. Il Minimoog contribuì a definire il suono della musica di quel decennio: uno dei primi a utilizzarlo fu Sun Ra, uno dei musicisti più leggendari del jazz moderno, famoso per le sue sperimentazioni musicali sofisticate e uniche nel panorama musicale di quegli anni.

Ma fu estesamente utilizzato anche da diversi musicisti della scena italiana del rock progressive, come Flavio Premoli della PFM, Tony Pagliuca delle Orme e Vittorio Nocenzi del Banco del Mutuo Soccorso, e della musica dance, come nel caso del compositore altoatesino Giorgio Moroder, quello che aprì la strada al filone della Italo Disco.

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Come il suo predecessore più ingombrante, anche il Minimoog ebbe pochi concorrenti, come per esempio l’Arp Odyssey, un sintetizzatore prodotto dall’azienda britannica Arp, che agli inizi degli anni Settanta provò a sfidare il dominio della statunitense Moog in questo settore. A differenza del Minimoog, l’Odissey era un apparecchio duofonico, e quindi capace di suonare due note contemporaneamente.