La doppia fatica di “The Apprentice”

Il film su Donald Trump presentato a Cannes ha impiegato molto tempo a trovare qualcuno che volesse distribuirlo, e ora che è uscito sta andando male

Maria Bakalova (Ivana Trump) e Sebastian Stan (Donald Trump) in The Apprentice, 2024 (Pief Weyman/Mongrel Media/Courtesy Everett Collection via Contrasto)
Maria Bakalova (Ivana Trump) e Sebastian Stan (Donald Trump) in The Apprentice, 2024 (Pief Weyman/Mongrel Media/Courtesy Everett Collection via Contrasto)
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Fin dalla sua presentazione al festival di Cannes, a maggio, il film che racconta gli anni dell’ascesa di Donald Trump, The Apprentice, ha avuto difficoltà a trovare qualcuno che lo distribuisse nelle sale statunitensi. L’unica società che ha fatto un’offerta sostanziosa, l’ha infine fatto uscire nei cinema lo scorso weekend e ha incassato pochissimo: 1,5 milioni di dollari. Anche se sono passati solo pochi giorni (e in molti paesi non è ancora uscito: in Italia per esempio esce giovedì), secondo molti The Apprentice sarà un flop: una cosa piuttosto inaspettata per un film su un candidato così controverso alla presidenza, che racconta le origini della sua ricchezza e del suo personaggio, uscito un mese prima delle elezioni.

Alla fine di maggio, quando ormai erano passate due settimane dalla sua presentazione a Cannes, la testata di settore Variety scriveva che nessun distributore lo aveva ancora comprato per il territorio statunitense. È quello che i film vanno spesso a fare a Cannes: presentarsi per essere venduti alle società che poi li distribuiscono nei vari territori del mondo (per territorio si intende un complesso di nazioni unite dalla lingua, come i paesi francofoni o quelli ispanici). Il paese di origine del film è quasi sempre quello per il quale un distributore c’è già: quindi che nessuno avesse comprato The Apprentice per distribuirlo negli Stati Uniti era alquanto sorprendente.

The Apprentice si svolge negli anni ’80 e presenta Donald Trump (interpretato da Sebastian Stan) come un giovane imprenditore del settore immobiliare di New York di scarsa fortuna ma molta ambizione. Proprio questa ambizione lo fa entrare in contatto con un potente avvocato dell’epoca, Roy Cohn (interpretato da Jeremy Strong, protagonista della serie tv Succession), che decide di aiutarlo e gli insegna tutto quello che (secondo lui) serve sapere per emergere. Quell’incontro, e ciò che Trump impara, cambiano la sua carriera e formano quello che agli occhi degli spettatori del 2024 è il Donald Trump moderno: un uomo che ha capito che una bugia ripetuta a sufficienza può essere spacciata per verità, che usa il sistema giudiziario come arma contro gli avversari e che sistematicamente fa in modo di avere l’attenzione mediatica su di sé.

The Apprentice è diretto dal regista iraniano naturalizzato danese Ali Abbasi, che con i suoi due precedenti film si è procurato una certa notorietà nella scena cinematografica mondiale. Nel 2018 con Border ha vinto il premio della sezione Un Certain Regard di Cannes (dedicata al cinema di scoperta) e poi sempre a Cannes il film del 2022 Holy Spider, un thriller su un assassino di donne e una donna che indaga su di lui in Iran, ha fatto vincere il premio per la miglior attrice a Zahra Amir Ebrahimi. The Apprentice è il suo primo film americano e con attori americani. Nella prima parte, Donald Trump è un personaggio in difficoltà con cui empatizzare: ha un padre difficile, è desideroso di diventare qualcuno e i suoi metodi sono ancora legittimi. Nella seconda, invece, diventa respingente e viene ritratto mentre ingerisce pillole di anfetamine, si sottopone a interventi di liposuzione e impianto di capelli e picchia e abusa sessualmente di Ivana Trump, all’epoca sua moglie. Proprio questa scena è quella che ha da subito attirato l’attenzione degli avvocati di Trump, che hanno minacciato azioni legali (poi mai portate avanti) già dalla proiezione a Cannes.

Ali Abbasi e il cast di The Apprentice a Cannes (Andreas Rentz/Getty Images)

Alla presentazione a maggio Donald Trump era dato in vantaggio rispetto a quello che era allora il suo rivale, Joe Biden, e l’idea che potesse diventare presidente aveva spaventato molti grandi distributori, cioè i soggetti che più di tutti avrebbero dovuto essere interessati al film. Società come Universal, Warner o Disney (e le loro affiliate che gestiscono i film indipendenti) sono o grandi conglomerati o proprietà di grandi conglomerati, la cui attività comprende spesso l’acquisizione di altre società. Queste fusioni devono essere approvate dalle autorità di controllo sulla concorrenza, e il timore che il presidente degli Stati Uniti possa interferire con queste autorizzazioni per ripicca è quello che, a detta della stampa di settore, ha cominciato a rendere difficile la vendita del film.

Oltre a questo c’è una questione più complicata che riguarda la produzione. Per realizzare The Apprentice sono stati necessari 29 produttori esecutivi, un numero eccezionale (di solito un film americano ne ha dai 5 ai 10) e invece delle solite 4-5 società di produzione ce ne sono volute 15. È il segno del fatto che già in fase di raccolta dei fondi l’argomento non era ritenuto di grande interesse. Tra questi produttori c’era anche Dan Snyder della Kinematics, un miliardario che aveva sostenuto Trump nel 2016 con 1,1 milioni di dollari di donazioni, che pensava che The Apprentice sarebbe stato un film pro-Trump e solo dopo averlo visto ha capito di essersi sbagliato. Avere tra i produttori una persona spaventata dal fatto che il film venisse visto non ha aiutato la ricerca di un distributore.

A fine agosto, tre mesi dopo la sua presentazione, The Apprentice è stato infine comprato da un distributore, la Briarcliff Entertainment, una società piccola che negli anni si è specializzata nella distribuzione di film “che non volevano farvi vedere”. È un’espressione tipica del marketing cinematografico statunitense con la quale si identificano quel tipo di storie controverse, che hanno generato una discussione sulla stampa e che scontentano persone o interi settori che avrebbero tutto l’interesse a non farli circolare. Briarcliff è stata creata sei anni fa da Tom Ortenberg, un ex dirigente di Lionsgate, per concentrarsi su un settore del mercato cinematografico secondo lui poco sfruttato.

I “film che non volevano farvi vedere” possono infatti essere acquistati a prezzi più bassi del solito, perché non c’è competizione e quindi più facilmente possono generare un profitto. Briarcliff Entertainment ha distribuito, per esempio, The Dissident, sull’assassinio di Jamal Khashoggi, e il documentario di Michael Moore sulla presidenza di Donald Trump, Fahrenheit 11/9. Inoltre Ortenberg, che negli anni è stato un sostenitore dei Democratici ma che in passato aveva provato ad acquistare (senza riuscirci) sia documentari pro Hillary Clinton che altri contro di lei, che amplificavano le accuse più assurde, con un’altra società, ha anche distribuito Il caso Spotlight, che vinse l’Oscar nel 2016 raccontando come fu denunciata dalla stampa un’ampia rete di pedofilia nella chiesa a Boston. Dopo The Apprentice, ha acquistato i diritti di distribuzione di Magazine Dreams, un film che la Disney aveva deciso di non distribuire più perché il suo protagonista, Jonathan Majors, è stato condannato per molestie e percosse alla sua ex fidanzata.

Nonostante Briarcliff fosse stato l’unico distributore americano ad aver fatto un’offerta, Kinematics, la società di Snyder che ha il diritto di veto sulle vendite ai distributori, aveva bloccato la vendita sostenendo che la cifra fosse troppo bassa. Il caso è stato portato in tribunale, ma i tempi della giustizia non sarebbero stati sufficienti per far uscire il film prima delle elezioni, perdendo quello che era percepito come il momento migliore per far uscire il film con buoni incassi. Perché si sbloccasse la situazione, è stato necessario che James Shani, un altro dei molti produttori del film, acquistasse Kinematics, consentendo così a Snyder di dissociarsi interamente dal film. La mossa ha anche consentito al regista Ali Abbasi di avere l’ultima parola sul montaggio finale (una cosa non scontata per i registi negli Stati Uniti, dove di solito spetta alla produzione) e rendere più esplicita la scena dello stupro.

Già da settembre la distribuzione ha cominciato a lavorare per far parlare del film, prima con una campagna su Kickstarter per farlo rimanere nelle sale il più possibile, il cui obiettivo erano 100mila dollari e che ne ha raccolti 400mila (una cifra che non cambia comunque gli equilibri in una distribuzione americana), e poi affittando un aereo che volasse sopra un comizio di Donald Trump con uno striscione promozionale.

Nonostante tutto il lavoro, il primo weekend di incassi ha fatto intuire che con buone probabilità The Apprentice non porterà a un profitto. Nonostante Briarcliff punti anche su una campagna per la candidatura agli Oscar, è difficile che, passate le elezioni, il film possa generare più interesse di ora.

Le ragioni del flop dipendono un po’ dalla natura del film e un po’ dalla distribuzione che ha avuto. Per poter fare buoni incassi negli Stati Uniti un film come questo, molto classico nel suo racconto del protagonista, necessita di una grande distribuzione, di una promozione imponente, di ospitate televisive, copertine di giornali e tutto quello che lo fa diventare un argomento di dibattito. In alternativa, per poter diventare un successo indipendente, avrebbe dovuto essere più estremo di quello che è. Nonostante alcune scene non gradite a Trump, The Apprentice è un film che non ha le caratteristiche del cinema “proibito” che solitamente attirano il pubblico di nicchia.

A questo bisogna aggiungere che film molto politici e controversi non sono sempre una garanzia di incasso negli Stati Uniti quanto lo sarebbero in altri paesi. Andò molto bene Fahrenheit 9/11 di Michael Moore, un documentario contro George W. Bush e il suo approccio alla guerra al terrore uscito durante la sua presidenza (che tuttavia non gli impedì poi di rivincere le elezioni), ma andò male Fahrenheit 11/9, sempre di Moore, contro Trump. Così come sono andati male Vice, il film di Adam McKay su Dick Cheney o un altro film contro George Bush, W. di Oliver Stone.

Il critico di Variety Owen Gleiberman ha sintetizzato i problemi di incasso di The Apprentice spiegando come non sia il tipo di film incendiario che vorrebbe essere e non abbia un vero pubblico, visto che i Democratici anti-Trump non necessitano di conferme di quello che pensano, i Repubblicani pro-Trump non lo vedranno mai e gli indecisi, che dovevano essere il target vero, non sembrano esserne attratti: «È il tipico miraggio e quel tipo di allucinazione di cui sono preda le persone che fanno film come questi […] con un’elezione in arrivo e il destino dell’America in bilico, cosa c’è di più superficialmente rilevante ma per nulla rilevante sul serio, di un film come The Apprentice? […] Nulla di quello che Donald Trump fa in questo film può rivaleggiare con i pericoli che pone oggi, con ogni negazione e ogni promessa di continuare il suo regno di caos».

Gleiberman aggiunge poi che la vera minaccia che il film ha mostrato non sta nel film in sé, ma viene dalla sua storia distributiva: «Il fatto che la parte mainstream di Hollywood si sia spaventata all’idea anche solo di toccare The Apprentice dovrebbe dirci qualcosa. Non è stata un’anomalia. Al momento, l’impressione è che potrebbe essere una fosca anteprima di qualcosa in arrivo prossimamente».