Fine dell’ultima colonia britannica

«Mauritius divenne una repubblica indipendente nel 1968. Non certo tranquillamente, né per buona volontà dei colonizzatori. Al contrario gli inglesi scorporarono dal territorio le isole Chagos e deportarono in massa circa 2.000 abitanti di cui 924 da Diego Garcia. Un diplomatico inglese disse che alle Chagos “insieme agli uccelli c’è qualche Tarzan e qualche Venerdì”. Il 4 settembre 2024, dopo cinquantasei anni di dominazione britannica, è stato annunciato il ritorno delle isole alla sovranità di Mauritius»

Una donna protesta per rivendicare il diritto delle persone costrette a lasciare le isole Chagos di ritornare nell’arcipelago. Londra, 22 ottobre 2008
(REUTERS/ Andrew Winning)
Una donna protesta per rivendicare il diritto delle persone costrette a lasciare le isole Chagos di ritornare nell’arcipelago. Londra, 22 ottobre 2008 (REUTERS/ Andrew Winning)

La notizia. Il 4 ottobre è stato annunciato un accordo tra il Regno Unito e Mauritius, e si aspetta solo la definizione finale in un trattato. Dopo 56 anni di sofferenze, deportazioni, contrasti e processi, le isole Chagos torneranno sotto la sovranità di Mauritius, e – forse! – i loro abitanti, esuli da decenni, alle loro case. In cambio, un cambio certo ineguale, Diego Garcia, l’isola maggiore, resta per 99 anni al Regno Unito, che con gli Usa vi ospita una base militare strategica per l’oceano Indiano. Una “piccola” vicenda esemplare ricostruita in un gran libro di Philippe Sands, L’ultima colonia. Sullo sfondo della decolonizzazione la storia di un popolo che lotta per la sua terra (Guanda, 2023, pp. 288).

Partiamo dai luoghi. L’isola Mauritius (o anche le isole, perché è accompagnata da una minore e da alcuni atolli) è un’isola-stato nel mezzo dell’oceano Indiano. Ha solo 1.300.000 abitanti ed è nota per essere un “paradiso terrestre” (così la definiscono le guide turistiche e i fortunati che ci sono stati in vacanza): un succedersi di spiagge, lagune, atolli corallini, boschi verdeggianti grazie alle piogge tropicali. Fa parte geograficamente dell’Africa, ma ha dati statistici, economici e sociali migliori della media di quel continente. Il suo PIL pro capite è secondo, in Africa, solo alla Guinea Equatoriale. È una democrazia (dal 1992 repubblica nell’ambito del Commonwealth) e rispetta i diritti umani.

A partire dal XVI secolo, quando i primi arrivati europei, gli olandesi, diedero loro il nome di un loro principe, Maurizio di Nassau, le Mauritius appartennero alla Francia, poi dal 1814 alla Gran Bretagna. Francese e inglese sono tuttora le due lingue ufficiali, anche se l’idioma più usato è il creolo mauriziano, una lingua mista, di base francese, un po’ meno inglese, influenzata anche da portoghese, malgascio, lingue dell’Africa meridionale e dell’India. Testimonianza, questa, della varietà di migrazioni che hanno formato la popolazione attuale: schiavi africani (l’abolizione della schiavitù arrivò qui nel 1835), in prevalenza mozambicani e malgasci, importati per lavorare nelle piantagioni di cocco e di canna da zucchero; più recenti migranti indiani (e l’induismo è la religione più diffusa, più di cristianesimo e islam); commercianti e amministratori da altri paesi dell’Asia e dell’Africa. Un prodotto della storia dei due continenti, incrociata con quelle dei colonizzatori.

Mauritius divenne una repubblica indipendente nel 1968. Non certo tranquillamente, né per buona volontà dei colonizzatori. Al contrario, all’indipendenza, gli inglesi scorporarono dal territorio da sempre unito le isole Chagos, 55 piccoli arcipelaghi, per lo più atolli corallini semisommersi, per una superficie complessiva di terre emerse di 63,17 km quadrati, disperse in un immenso spazio dell’oceano Indiano. Basta pensare che Peros Banhos, l’atollo delle Chagos di cui più si parla nel libro, dista dalle Mauritius 2.000 km. Oppure, guardare in un atlante una carta (o su Google Maps un’immagine satellitare) dell’oceano Indiano che contenga almeno i principali arcipelaghi. Verso occidente, la distanza di Mauritius dal Madagascar è minore: 800 km.

Lo scorporo comportò il passaggio delle Chagos a una colonia del Regno Unito, il Territorio britannico dell’oceano Indiano, istituito poco prima (British Indian Ocean Territory, BIOT).

Fino all’indipendenza, gli abitanti delle Chagos erano circa 3.250, provenienti da popolazioni immigrate da tempo dal Madagascar o dall’Africa orientale. Vivevano di pesca o della coltivazione di cocco, da cui estraevano la copra, la polpa essiccata, e di una piccola agricoltura per autoconsumo, ortaggi e qualche animale. Nei ricordi della signora Liseby Elysé, nata nel 1953 a Peros Banhos, gli abitanti delle Chagos erano contenti, malgrado una povertà evidente ma dignitosa, di vivere in un ambiente naturale molto gradevole. Non c’era acqua corrente – racconta – né energia elettrica, sostituite da un pozzo e da generatori; si viveva in una capanna con muri di legno e paglia, tetto di paglia e foglie di palma. C’era un ospedale abbastanza vicino, una chiesetta per la messa della domenica, in un’altra delle isole. «Tutti avevano un lavoro, una famiglia e una tradizione. Mangiavamo solo cibi freschi. […]. Alle Chagos tutti vivevano felici».

Su questa comunità, il distacco dalle Mauritius si abbatté come un autentico dramma, anche per il modo inumano in cui venne realizzato. I politici di Mauritius avevano cercato invano di resistere a un’indipendenza “amputata” e ripresero poi subito a chiedere la restituzione del territorio perduto. Gli inglesi risposero con una durezza che segnò anche in seguito i loro comportamenti. Quanto ai chagossiani, nessuno li informò di quanto stava per accadere, fino al giorno in cui un amministratore si presentò in ogni isola dicendo agli abitanti che se ne dovevano andare: «L’isola chiude».

Andarsene, fu precisato, portandosi dietro solo l’essenziale, lasciando tutto o quasi, compresi gli animali, anche i cani. I chagossiani vennero deportati alle Seychelles o a Mauritius, dove vennero approntate delle abitazioni provvisorie. Liseby, diciannovenne, aveva sposato nel 1972 France Elysé. Fu imbarcata l’anno dopo, incinta del primo figlio, con gli altri 500 abitanti di Peros Banhos, su navi che li sbarcarono, dopo quattro giorni, a Mauritius. Appena arrivata perse il figlio: «Immagino – disse più tardi – che sia stato per il trauma e la tristezza». Ancora, raccontò di aver vissuto con altri tre o quattro per stanza per quattordici anni, fino al 1987, lavorando come cameriera o bambinaia.

Uno dei paradossi di questa storia è che gli inglesi vollero fortemente la nascita del Territorio (l’“ultima colonia”) proprio mentre nel resto del mondo avanzava irresistibilmente la decolonizzazione, a cominciare dall’impero britannico, che si era già vista sottrarre prima la Transgiordania nel ’46, l’anno dopo il Pakistan e l’India («le gemme della corona»), poi ancora numerosi paesi africani. Sempre gli inglesi erano stati tra i primi firmatari dei numerosi trattati, convenzioni, istituzioni internazionali sul diritto dei popoli all’autodeterminazione, e continuavano ufficialmente su questa linea nell’82, al tempo della guerra delle Falkland/Malvine. Allo stesso tempo chiudevano ostinatamente ogni porta al ritorno delle Chagos alle Mauritius e dei chagossiani alle loro case. Un diritto internazionale pro domo sua.

Che cosa indusse gli inglesi a una politica tanto rigida? Non va dimenticata la nostalgia dell’impero, che in quegli anni, soprattutto dopo le Falkland, animava la pubblica opinione britannica, testimoni le mostre e i film sul raj britannico e i romanzi “indiani” di Paul Scott. Ma già nel ’41, all’epoca delle discussioni sulla Carta Atlantica, che prevedeva tra le altre cose il divieto di espansioni territoriali e il diritto all’autogoverno, Churchill fronteggiava Roosevelt con irritazione: «L’Inghilterra non ha nessuna intenzione di perdere la sua posizione di favore nei domini britannici».

In ogni caso, alla radice della decisione che sottrasse le Isole Chagos a Mauritius ci fu il problema di Diego Garcia, la più grande e la più abitata delle 55 isole dell’arcipelago; soprattutto destinata dalla geografia a svolgere un ruolo strategico che aveva attirato da tempo l’interesse degli americani. Trattative più o meno segrete tra Usa e Regno Unito si sarebbero concluse nel 1966 con la concessione dell’isola agli Stati Uniti per un periodo di cinquant’anni, poi esteso nel 2016 ad altri venti. All’origine si trattava di un luogo importante per le comunicazioni militari. Poi l’isola divenne una base aeronavale: una delle due grandi basi di questo tipo (l’altra è quella di Guam, nelle Marianne), destinate rispettivamente al controllo dell’oceano Indiano e di quello Pacifico meridionale. Negli anni successivi la base di Diego Garcia svolse un ruolo molto importante nella guerra del Golfo (1991), poi in quelle in Afghanistan (dal 2001) e Iraq (2003). Oggi a Diego Garcia abita il personale militare, più fornitori e appaltatori di servizi per la base.

– Leggi anche: L’atollo nell’oceano Indiano in cui quasi nessuno può entrare

La deportazione in massa di circa 2.000 abitanti delle Chagos (di cui 924 da Diego Garcia) dette inizio a contrasti profondi e aspri. Il governo di Mauritius cercò da subito di sottrarre allo scorporo per lo meno le isole non direttamente coinvolte in questioni strategiche e militari, ma si scontrò sempre con la volontà di tenere il territorio totalmente sgombro. «Devono sparire», disse un ammiraglio della marina Usa. Le ragioni addotte di volta in volta per giustificare questo atteggiamento furono diverse. Si sostenne che le isole non erano mai state abitate: il che – era sottinteso –permetteva di “liberarle” dai pochi esemplari superstiti senza troppi scrupoli. Un diplomatico inglese disse nel ’66 che alle Chagos «insieme agli uccelli c’è qualche Tarzan e qualche Venerdì, le cui origini sono ignote»: affermazioni non solo menzognere, ma spregevoli.

A questo si aggiunsero ragioni di geopolitica e sicurezza (sottinteso: di Diego Garcia e delle sue operazioni), infine anche ambientaliste. Venne realizzata un’enorme riserva naturale in difesa del patrimonio biomarino che raddoppiò in un sol colpo la superficie complessiva mondiale delle aree oceaniche protette. Questo aggiunse ai pretesti britannici i possibili danni della pesca al patrimonio ittico, e dei pescatori all’ambiente. In realtà fu chiaro fin da subito che l’esclusione di pochi pescatori (al massimo, non più di 3000, e comunque dispersi in quella moltitudine di acque) servisse solo a precludere ai deportati un futuro rientro.

Alcuni giovani chagossiani studiarono, divennero avvocati e presentarono ricorsi presso le corti inglesi, affiancandosi a politici e governanti di Mauritius. A un certo punto gli inglesi stessi proposero dei risarcimenti irrisori facendo firmare a chi li riceveva una liberatoria per rinunciare a ulteriori rivendicazioni. Un risarcimento venne offerto anche a Madame Elysé, che essendo analfabeta firmò con il pollice: una procedura successivamente invalidata.

Negli anni si aprirono nuove strade, quelle del diritto internazionale e relative istituzioni, e qui entrò in azione l’autore del libro che abbiamo citato all’inizio. Philippe Sands era entrato in contatto con il mondo del diritto internazionale nel 1980, quando aveva diciannove anni. Da allora ne aveva sempre studiato le attività, a partire dal processo chiesto da Liberia ed Etiopia presso la Corte internazionale contro il Sud Africa che negava l’autodeterminazione all’Africa di Sud-Ovest, attuale Namibia. Cominciò ad occuparsi delle Chagos nel 2010, quando ebbe i primi contatti con alcuni rappresentanti di Mauritius, ma soprattutto quando conobbe Liseby Elysé che gli fece una grande impressione, tanto da diventarne amico e farne la protagonista della vicenda narrata in L’ultima colonia. Il libro contiene numerose fotografie che testimoniano della vita nelle Chagos prima della chiusura. In una si vede Madame Elysé insieme al marito, poco dopo il matrimonio: una ragazza. Ma era passato molto tempo. Quando Sands la chiamò a testimoniare presso la Corte la descrisse così: «Una donna in tailleur nero e camicia bianca bordata di pizzo, con un piccolo distintivo con la scritta: ‘Lasciateci tornare’».

I processi davanti alla Corte internazionale dell’Aia si conclusero nel 2019. Sands si era convinto che la strategia capace di portare a una vittoria giudiziaria delle Mauritius non potesse che fondarsi sulla partecipazione in prima persona dei chagossiani. Scelse Madame Elysé per assegnarle la testimonianza decisiva. Liseby Elysé non era persona da tirarsi indietro, ma sapeva di essere analfabeta e intimidita dalla solennità delle procedure giudiziarie. Avrebbe potuto essere travolta dall’ansia e dall’emozione. Sands la convinse a un compromesso: le fece registrare un video di 3’ 47’’ nel quale raccontava la vita delle Chagos, la crudele deportazione dalle proprie case e la volontà di tornarvi.

Il video venne mostrato alla Corte durante un’udienza in cui lei era presente, e fu ascoltato con attenzione e rispetto per una dignità e un coraggio cui sarebbe stato difficile a chiunque restare indifferente. Fu la testimonianza decisiva. Qualche mese dopo, il 25 febbraio 2019, ci fu la lettura della sentenza davanti a un’aula gremita e commossa. Il presidente della Corte, il giudice somalo Abdulqawi Ahmed Yusuf, cominciò respingendo le obiezioni di ammissibilità, che avevano fatto sempre da freno nelle fasi precedenti del processo; poi ricordò tutta la storia.

I chagossiani erano stati «trasferiti forzatamente», il distacco delle Chagos non si era basato «su una libera e genuina espressione della volontà della popolazione interessata» e la perdurante amministrazione britannica era stata fin dall’inizio illegale e continuava a esserlo. La Gran Bretagna doveva porre fine a questo «atto indebito […] il più rapidamente possibile». La Corte rinviava all’Assemblea generale dell’Onu, e questa stabilì poco dopo che l’occupazione del Territorio da parte della Gran Bretagna dovesse terminare entro il 2019. Fino a oggi il governo britannico non aveva dato esecuzione al provvedimento, aveva anzi risposto ai massimi organismi internazionali dando per scontati i suoi diritti quasi “naturali” sulle proprie colonie o con un silenzio altrettanto insolente.

La sola concessione ai chagossiani, nel 2022, era stata quella di poter fare una commovente «visita della memoria» nella quale un gruppo di isolani con i loro avvocati (fra i quali Sands) furono portati su una nave a visitare brevemente alcune isole dalle quali erano stati espulsi e a rendere omaggio alle tombe ricoperte dalle erbacce. Sands era rimasto ottimista, e aveva continuato a rassicurare i suoi amici delle Chagos. Era convinto che la vittoria del ’19 alla Corte di giustizia avesse rappresentato un momento di grande importanza sul piano morale, praticamente irrevocabile; e che la situazione si potesse risolvere in virtù di una pressione politica internazionale, soprattutto da parte del mondo afroasiatico, e anche di iniziative dei politici di Mauritius. La sua decisione di scrivere il libro ha contribuito a questo esito. Alla possibilità che Liseby Elysé e i suoi tornino a casa.

Dopo aver insegnato diritto all’University College London, oggi Philippe Sands insegna Public Understanding of Law, sempre all’UCL. Ha partecipato a importanti processi della Corte penale internazionale, fra cui quello per l’estradizione di Pinochet. Ha scritto altri due libri: La strada verso est, una storia sul nonno materno, ebreo sopravvissuto alle persecuzioni naziste, e sui due giuristi di Leopoli che elaborarono i concetti giuridici su cui si basò il processo di Norimberga: quello di “genocidio” e quello di “crimini contro l’umanità”; e La via di fuga.

Gianni Sofri
Gianni Sofri

Ha studiato e insegnato storia, curato per la Zanichelli una collana di innovatori testi scolastici di geografia. Ha una mania per la divulgazione. Tra i suoi libri Il modo di produzione asiatico (Einaudi, 1969), Gandhi in Italia (il Mulino, 1988), Gandhi tra Oriente e Occidente (Sellerio, 2015). E il penultimo, sul suo maestro, Arsenio Frugoni, L’anno mancante (2021). L’ultimo arriverà. Vive a Bologna.

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