Perché le piattaforme di streaming sembrano sempre di più la vecchia tv
Le pubblicità sempre più presenti e i minori investimenti sulle novità dipendono da come è cambiato il modello di business: non serve attrarre nuovi abbonati, ma tenere quelli che ci sono
Negli ultimi due anni molte delle piattaforme di streaming sulle quali non erano presenti interruzioni pubblicitarie oppure spot in pre-roll (quelli che si vedono prima che inizi il contenuto selezionato) hanno cominciato a mostrarne o a prevedere dei livelli di abbonamento in cui compaiono. Inoltre stanno crescendo sempre di più le piattaforme FAST (acronimo di Free Advertising-supported Streaming TV) come per esempio Pluto TV, gratuite e basate su una grande presenza di pubblicità. L’arrivo delle piattaforme di streaming aveva progressivamente abituato una parte di spettatori a vedere contenuti senza interruzioni o introduzioni pubblicitarie, ma adesso sembra che gli spot pubblicitari siano di nuovo indispensabili, e che quello che appariva come un modello superato sia tornato a essere il futuro della televisione.
Netflix e Disney+ hanno un livello di abbonamento base, cioè il meno costoso, che prevede la presenza di spot pubblicitari; Prime Video invece ha aggiunto la pubblicità in pre-roll all’abbonamento standard, chiedendo un pagamento in più a chi non la vuole vedere. Piattaforme come DAZN e Warner Bros Discovery hanno invece aggiunto dei canali gratuiti con pubblicità alle loro piattaforme. Significa che anche chi non è abbonato a Discovery+ può vedere Nove e Real Time e chi non è abbonato a DAZN può vedere tramite l’applicazione canali come Padel Time TV, Boxing TV, Lacrosse TV, PDC Darts o Billiard TV. In più le piattaforme finanziate da pubblicità come Pluto TV (di proprietà di Paramount) propongono film e serie tv di catalogo (cioè di più di dieci anni fa) o sport minori. Altre molto importanti in alcuni mercati ma non presenti in Italia sono Tubi e The Roku Channel.
Per quanto quindi la possibilità di continuare a fruire dei contenuti di queste piattaforme senza pubblicità rimanga, a patto di pagare di più, è evidente che la vecchia promessa dello streaming di liberare la fruizione di contenuti audiovisivi dalla pubblicità non verrà mantenuta. Anzi la pubblicità è una parte sempre più importante, nella forma tradizionale degli spot come anche in altre più sperimentali. Non è infatti raro che i modelli di business delle aziende contemporanee inizino in una maniera, con un’offerta estremamente conveniente e spesso gratuita che gli consente di conquistare rapidamente una grande porzione di mercato, e poi una volta affermato il proprio servizio gradualmente diventino più tradizionali o a pagamento. Questa è la parabola che sembra stia facendo anche la televisione in streaming.
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A seguito della pandemia e degli scioperi molte delle grandi compagnie che possiedono una piattaforma di streaming sono in una fase di contrazione. Ci sono stati molti licenziamenti e un forte ridimensionamento della quantità di serie e film prodotti. In molti sostengono e hanno sostenuto negli anni passati che ci sia stata una bolla. Per molti anni cioè si sarebbe prodotto troppo, molto più di quanto qualsiasi spettatore potesse vedere, grazie a un flusso di capitali che veniva dalla borsa. I titoli delle piattaforme streaming infatti salivano all’aumentare degli abbonati e gli abbonati aumentavano con l’offerta di nuovi film e serie. Quando Netflix per prima ha smesso di crescere come prima, raggiungendo in sostanza il limite delle persone che, per il momento, vogliono farsi un abbonamento, tutto è cambiato. Affidarsi ai soli abbonamenti non basta quindi più per sostenere i costi di una piattaforma e la pubblicità è l’unica possibile alternativa.
La cosa più importante per le piattaforme ora è diventata trattenere abbonati, e questo significa che anche l’offerta non può più essere come prima. Per esempio se prima offrire una nuova serie ogni settimana (a prescindere dal suo valore) si era dimostrato un buono strumento per attirare abbonati, adesso molte piattaforme preferiscono non pubblicare più tutti gli episodi di una serie insieme, ma uno a settimana, così da tenere coinvolto più a lungo chi la segue. Non a caso la piattaforma che ancora produce più delle altre (anche se non come prima), cioè Netflix, è anche quella che perde meno abbonati ogni mese.
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Il modello di business, insomma, gradualmente sta passando dall’avere sempre più abbonati a trattenere quelli che ci sono assicurandosi che guardino i programmi, in modo che gli spazi pubblicitari abbiano un valore. Contestualmente, cambia anche l’investimento sulle novità. Per anni le piattaforme hanno puntato sulla vittoria di premi e quindi sulle serie di grande prestigio di cui tutti devono parlare e su cui si scrivono articoli, quelle che conferiscono loro un certo status e una buona reputazione. Quel tipo di produzione continua ad avere un senso, ma sempre di meno. Nel momento in cui trattenere è più importante di fare nuovi abbonati diventa importante la quantità di spettatori, cioè preservare e rinnovare i programmi, le serie e i film più popolari e seguiti. Ragione per la quale sia Netflix che Prime Video hanno sempre più show televisivi o repliche di vecchie serie di successo. E la cosa paga.
Secondo Bloomberg, al momento tra tutte le piattaforme la cosa più seguita sono le repliche di NCIS, una serie vecchio stampo iniziata 21 anni fa (un’altra che ha ottenuto un rinnovato grande successo è Suits, quando è arrivata in replica su Netflix). Più in generale tra le dieci serie più guardate in streaming ci sono anche Grey’s Anatomy, Criminal Minds e Gilmore Girls, produzioni generaliste di diversi anni fa, lontane da quelle più audaci con cui le piattaforme sono diventate famose.
A enfatizzare l’impressione di un ritorno al modello della tv finanziata dalla pubblicità anche per le piattaforme si è aggiunto il fatto che lo scorso maggio per la prima volta Netflix e Prime Video hanno partecipato agli upfront. È un evento che esiste da decenni e che, nell’industria della pubblicità americana, serve a presentare i nuovi palinsesti dei vari canali televisivi agli inserzionisti. Durante gli upfront ogni canale ha un momento dedicato a sé e cerca di presentarsi come quello con il palinsesto più attraente per ricevere più offerte di acquisto di spazi pubblicitari della concorrenza.
Le piattaforme, non avendo pubblicità, non avevano mai partecipato, quest’anno invece lo hanno fatto con grande impegno, portando le star delle loro serie a fare da testimonial. Jimmy Kimmel, presentatore del late show Jimmy Kimmel Live! in onda sulla ABC (un canale televisivo tradizionale di proprietà di Disney, di quelli che hanno sempre avuto la pubblicità) nell’introdurre gli upfront Disney ha molto ironizzato sulla presenza dei rivali Netflix, dicendo agli investitori: «Ricordate quando Netflix pensava di essere superiore a tutto questo? Sono venuti e hanno distrutto la televisione commerciale e ora indovinate cosa vogliono vendervi? Pubblicità. Sulla televisione!».
Al momento tuttavia la pubblicità che si vede sulle piattaforme è molta di meno di quella presente sulle televisioni generaliste gratuite, la media sta tra i quattro e i cinque minuti per ora: nell’Unione europea il limite è 12 minuti l’ora, mentre negli Stati Uniti ce ne sono circa 21 in tv.
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L’unica piattaforma che ancora non ha pubblicità di nessun tipo è Apple TV+, ma è anche la prima ad aver iniziato a pensare (come rivelato lo scorso maggio) di cambiare la maniera in cui retribuisce chi partecipa alle sue produzioni, cercando di ridurre nettamente le spese. Fino a oggi il modello standard scelto dalle piattaforme ha sempre previsto un unico grosso pagamento all’inizio, prima che il contenuto sia pubblicato. Molto grosso. Questo è sempre stato molto allettante per le produzioni, perché sono molti soldi, garantiti e subito, senza che dipendano dalle prestazioni di quello che hanno fatto. È stato per molto tempo un modo per strappare i prodotti migliori alla tv generalista e una necessità data dal fatto che le piattaforme non divulgavano i dati riguardo al numero di persone che guardano i loro programmi.
Invece il modo in cui adesso Apple vuole cominciare a compensare le sue produzioni (quindi non quelle che acquisisce da altri produttori) si basa su quante persone si siano abbonate per vedere quella produzione, quante ore di quel contenuto siano state viste dagli utenti e sul rapporto tra il costo di una produzione e la grandezza del suo pubblico. Benché non ci siano notizie di piani equivalenti di Netflix e Prime Video, è noto che entrambe le piattaforme ci stanno lavorando.