Quanti cadaveri avete visto di persona?

«Un tempo gli esseri umani ignoravano moltissimo di quanto accadeva a poca distanza da loro, ma la morte era una presenza quotidiana e concreta. Da qualche decennio invece la conoscenza indiretta della sofferenza altrui è patrimonio comune. I volti straziati dei cadaveri di Gaza sono a un clic di distanza; reperire informazioni attorno alle vittime di un massacro in Sudan è facilissimo; e così via. Il che è un valore inestimabile, certo: ma cosa ne facciamo di tutto questo male? Sappiamo esserne all’altezza, sappiamo farne buon uso?»

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Quanti cadaveri avete visto di persona? Io in quarantatré anni solo due, entrambi anziani e morti per cause naturali; sono stato fortunato, certo, ma dubito anche di essere l’eccezione.

Un tempo, in fondo non così remoto, le cose stavano diversamente. Gli esseri umani ignoravano moltissimo di quanto accadeva a poca distanza da loro, ma la morte era una presenza quotidiana e concreta; le notizie sulla sofferenza altrui erano frammentarie, non verificabili, in ogni caso poco rilevanti.

Da qualche decennio invece la conoscenza indiretta, benché spesso ancora superficiale o distorta, è diventata patrimonio comune: in particolare quella del dolore. I volti straziati dei cadaveri di Gaza sono a un clic di distanza; reperire informazioni attorno alle vittime di un massacro in Sudan è facilissimo; e così via. Il che è un valore inestimabile, certo: ma cosa ne facciamo di tutto questo male? Sappiamo esserne all’altezza, sappiamo farne buon uso?

Temo che la risposta sia, quasi sempre, no. La nostra immaginazione morale continua a essere limitata, e quando si tratta di gestire una massa tale di sofferenza va in tilt. Possiamo proclamarci egualmente compassionevoli di fronte a ogni corpo violato, ma i corpi a noi cari smuoveranno in noi sempre emozioni più forti.

Ed ecco il paradosso: mentre il dolore vicino è via via celato (in prigioni, ghetti, opifici o anche solo RSA, ospedali e obitori), il dolore lontano ci ossessiona pur restando in qualche misura astratto. Ciò non impedisce di provare empatia, ma la reiterata rappresentazione del male contribuisce solo in parte a indirizzare diversamente le nostre scelte; anzi, può lasciarci preda della retorica o della mera (e comprensibilissima) replica emotiva.

Alla base di questo c’è anche una disparità di potere narrativo. Il nostro privilegio sta nella possibilità di chiudere gli occhi quando è troppo, o — simmetricamente — di osservare senza conseguenze. L’impudicizia, la naturalezza con cui condividiamo video e foto di città rase al suolo o persone urlanti dovrebbe farci riflettere, soprattutto quando lo facciamo in assoluta buona fede. Contraiamo una sorta di obbligo verso chi soffre anche solo gettandovi sopra uno sguardo compassionevole o distratto: ma l’obbligo resta inadempiuto. Né le vittime possono restituirci sguardi e parole.

Così tutto questo male genera sgomento e paralisi, come scriveva in altro contesto Elias Canetti parlando del «sangue sparso incessantemente e ovunque, del quale viviamo»:

«Non posso propriamente sperimentarlo, le mie mani si sono tenute sempre lontane dal sangue con orrore e spavento. Ma quanto è misero chi si accontenta di questo, mentre intorno a lui tutto continua ad andare nel solito vecchio modo, ed egli stesso si nutre delle uccisioni che altri commettono ogni giorno per lui! Non dormirò facendo finta di nulla».

Già. Tuttavia vegliare non basta: possiamo torcerci fra le lenzuola rosi dal senso di colpa o dal privilegio offertoci dal caso (nascere in un paese senza conflitti, vedere solo due cadaveri in quarantatré anni: nessun merito in questo), e alzarci al mattino senza muovere un dito. Del resto, che fare? Tornano alla mente le parole di Robert Musil in La nazione come ideale e come realtà, alle origini di quella società globale capace di ossessionarci con la sua semplice presenza. Il saggio è di oltre cent’anni fa, ma sembra di leggere un editoriale dell’altro ieri:

«La vita in società degli esseri umani è divenuta così vasta e intensa, i rapporti a tal punto inestricabilmente intrecciati che non c’è più un occhio o una volontà capace di attraversare ampie distanze; ciascuno, fuori dal proprio minuscolo raggio d’azione, resta un minorenne a ricasco degli altri […]. Il singolo deve lasciar fare e non agire, che gli piaccia oppure no. Un inglese o un americano non acconsentirebbe che i bambini dell’Europa centrale muoiano di fame, eppure lascia che accada».

La contraddizione in cui ognuno vive è proprio questa, e conduce direttamente all’assurdo; ma nessuno vuole vivere in una condizione di assurdità, perciò dobbiamo esercitare il privilegio narrativo e chiudere le palpebre a un certo punto. Oppure attingere all’abisso quando vogliamo uscire dalle mura dell’egoismo: allora accendiamo la tv, apriamo un giornale o un social media, e leggiamo, guardiamo, commentiamo.

Le aberrazioni non mancano di certo. Anche al di là di quanto accade altrove, ogni oggetto quotidiano ci ricorda lo sfruttamento di altri esseri umani o animali: un vestito, un telefono, un paio di mutande. O un po’ di verdura. Veniamo a sapere della morte di Satnam Singh; apprendiamo che non è una tragedia isolata bensì un capitolo della storia senza fine di servitù resa legittima: allora gonfi di rabbia vogliamo che tutto cambi. Però se una minoranza si impegna davvero in questa direzione — mettendo in gioco il proprio corpo e tempo — la maggioranza si ferma prima. Infine dimentica.

È triste e normalissimo insieme. Secondo un famoso aforisma di Hegel, leggere il giornale è una forma di preghiera laica del mattino: un modo, spiega il filosofo, di «situarci quotidianamente nel mondo storico». Ma sia la preghiera sia il rito dell’informazione si esauriscono una volta smessi i panni dell’orante o del fruitore di notizie. Nessuno può pregare in eterno, e ovviamente nessuno può occuparsi in eterno del dolore altrui.

Tuttavia noi ci ribelliamo. Vogliamo trarre qualcosa di buono dall’informarci così come le orazioni forgiavano disciplina caratteriale e non erano solo tentativi di convincere una divinità. Vogliamo sentirci parte di una comunità etica, di persone disgustate dai massacri e dallo sfruttamento — e dico questo senz’ombra alcuna di ironia: lo voglio anch’io, non è un impulso ipocrita, di certo è mille volte meglio dell’odio o dell’indifferenza di troppi altri. Ma il rischio è cadere in ciò che Emanuele Dattilo ha chiamato «militanza dell’opinione»: la condivisione della denuncia come «un segno di appartenenza, una bandiera, un’espressione identitaria».

Di nuovo non vorrei essere frainteso: si tratta di un gesto in ottima fede, il segno di una reale differenza tra disumanità e compassione. Quanti dicono di pensare ai bambini di Gaza o all’ennesima strage nel Mediterraneo non stanno certo atteggiandosi, non vogliono (salvo pochi casi aberranti) far mostra della propria sensibilità. Però fino a quel punto non stanno nemmeno militando. Si posizionano: ma benché sia sempre utile contarsi fra chi è capace di buoni sentimenti — e senza sottovalutare il loro potere contagioso — io credo che le parole pronunciate con enfasi determinino un vincolo di responsabilità. Non tutte le parole, ovviamente: ma se ci si proclama tanto interessati a certi temi dovrebbe essere ragionevole agire di conseguenza, nel proprio piccolo, con umiltà e decisione insieme.

Solo così la presenza disturbante della sofferenza, questo terribile ronzio di fondo che assale le buone coscienze, potrà uscire dall’altalena improduttiva tra il guardare senza agire — magari con un senso di colpa tanto soffocante quanto sterile — e il tapparsi gli occhi facendo finta di nulla. In Davanti al dolore degli altri Susan Sontag diceva:

«Le fotografie che tutti sono in grado di riconoscere sono ormai parte costitutiva di ciò su cui una società decide, o dichiara di aver deciso, di riflettere. Tali idee vengono chiamate “memorie”, ma, a lungo andare, questa è una finzione. A rigor di termini, infatti, la memoria collettiva — riconducibile alla stessa famiglia di false nozioni a cui appartiene la colpa collettiva — non esiste. Esiste invece l’istruzione collettiva».

Non prendiamo quest’ultima frase come l’ennesimo abracadabra. «Istruzione collettiva» significa in primo luogo educarci a rendere la conoscenza motivo di iniziativa concreta. Senza l’allargamento di quanto sappiamo non sarebbe praticabile, e a volte basta una singola storia per accendere la fiamma: il ruolo dell’informazione è dunque indispensabile, ma da solo resta insufficiente: spesso ne facciamo un uso pigro, volatile e soprattutto senza inventiva.

Certo quando si scende per strada le cose si fanno difficili. I grandi principi astratti enunciati alla tastiera o a tavola si scontrano con le vite vere e le loro innumerevoli contraddizioni; ma tale imprevedibilità rende anche meno ottusi. Ci costringe a essere più creativi nel partecipare a una manifestazione, fare una donazione, lanciare una colletta, esercitare pressione sul nostro partito o municipio, dedicarci al volontariato, organizzare uno sciopero o un boicottaggio o un’azione legale, cambiare dieta o mezzo di trasporto eccetera.

Non sto negando l’importanza del linguaggio — sarebbe ridicolo, considerato il mio mestiere — ma vorrei segnalarne i limiti. E anche i rischi. Le belle frasi inebriano: pronunciarle ci fa sentire meglio: possono certo spingere all’azione ma pure farsene comodo supplente; allora l’impotenza diventa disperazione o auto-indulgenza. Io sono affranto da quanto accade — io, io. Lo comprendo. E poi?

Poi chi può parlare continua a parlare, e chi soffre senza privilegio narrativo continua a soffrire: i rapporti reali non vengono sovvertiti da una mera opinione o dall’ostensione di fotografie. Dunque il problema riguarda innanzitutto chi detiene il privilegio narrativo e ne ha in sovrappiù una responsabilità legata al ruolo: chi scrive pubblicamente, per esempio. Io e i miei colleghi, per esempio.

Per fortuna abbiamo maestri cui rivolgerci: come il sociologo e attivista Danilo Dolci, di cui poco tempo fa era il centenario della nascita. Presentando il suo libro Banditi a Partinico Norberto Bobbio indicava come principale virtù di Dolci l’esserci non «per condannare o assolvere, ma per capire e soccorrere». Dote rara, poiché affianca il desiderio di conoscenza a una fame di giustizia che Dolci volle placare in prima persona, attraverso la partecipazione diretta, sporcandosi come si suol dire le mani con il fango che molti, anche gli scrittori più impegnati, avevano cura di tenere lontano dal naso.

Certo un simile esempio è troppo arduo da seguire per quasi tutti (per me senz’altro); ma non serve investire le energie in progetti di tale portata. Come scrive Todd May nel suo saggio uscito di recente, già cercare di comportarsi in modo decente — riconoscere la viva presenza altrui e fare qualcosa per renderla migliore — è un buon risultato. E vale anche quando l’aggettivo “altrui” si riferisce a persone lontane nello spazio e nel tempo, senza con ciò fingere di considerarli emotivamente pari ai nostri affetti: l’immaginazione morale sarà anche limitata, ma può essere educata. Può allargarsi, modularsi, arricchirsi, fare buon uso della ragione e non soltanto dell’emotività.

Giustamente Bobbio suggeriva la lettura di Banditi a Partinico a «tutti coloro che, in Italia, hanno una cattedra o un pulpito», ed elogiava la via dolciana «del non accettare la distinzione tra il predicare e l’agire, ma del far risaltare la buona predica dalla buona azione, e del non lasciare ad altri la cura di provvedere, ma di cominciare a pagare di persona».

I pulpiti nel frattempo si sono moltiplicati, le buone azioni un po’ meno. Si potrebbe ripartire da qui.

Giorgio Fontana
Giorgio Fontana

È uno scrittore. Il suo ultimo romanzo è Kafka. Un mondo di verità (Sellerio 2024).

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