La Federal Reserve ha annunciato la prima riduzione dei tassi di interesse dal 2020

Era una decisione molto attesa: negli anni scorsi erano stati alzati di molto per cercare di ridurre l'inflazione

Il presidente della Federal Reserve Jerome Powell (AP Photo/Susan Walsh)
Il presidente della Federal Reserve Jerome Powell (AP Photo/Susan Walsh)
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Mercoledì, a seguito della periodica riunione del comitato della Federal Reserve (FED), la banca centrale statunitense, il presidente Jerome Powell ha annunciato la decisione di ridurre i tassi di interessi di riferimento di 0,5 punti percentuali, portandoli così in un intervallo compreso tra il 4,75 e il 5 per cento.

I tassi di interesse sono lo strumento con cui le banche centrali tengono sotto controllo le dinamiche che influiscono sui prezzi. La riduzione era largamente attesa e auspicata da gran parte della politica e degli operatori finanziari. Mette fine a un periodo di due anni e mezzo in cui la FED, insieme alle banche centrali di tutto il mondo, li aveva prima aumentati di molto e in modo rapidissimo, con grosse conseguenze per l’economia e il mercato dei prestiti. L’obiettivo era fermare l’inflazione, l’aumento del costo della vita che era stato innescato dalla crisi energetica causata dall’inizio della guerra in Ucraina e da alcune conseguenze economiche della pandemia da coronavirus, quando l’economia era cresciuta a un ritmo troppo alto rispetto alla capacità produttiva.

Oggi negli Stati Uniti il problema dell’inflazione sembra più o meno risolto, così come nei paesi europei e nella maggior parte dei paesi avanzati, e l’economia ha iniziato a dare i primi segni di normalizzazione dopo anni di crescita. Questo risultato è stato raggiunto anche grazie all’aumento dei tassi di interesse: tassi più alti rallentano la crescita economica, e dunque tutte quelle dinamiche che portano all’aumento dei prezzi. Semplificando, con tassi più alti diventa più costoso fare un mutuo per comprare una casa, o aprire un finanziamento per avviare una nuova azienda e fare investimenti: il risultato è che l’economia tende a rallentare.

Il rialzo dei tassi è però un processo rischioso e spesso criticato dalla politica, che preferisce di gran lunga la manovra opposta, cioè una loro riduzione: tassi più bassi aumentano per esempio le compravendite di case, incentivano le aziende a investire e sono dunque uno stimolo alla crescita economica.

Al contrario una politica monetaria basata su tassi alti – per quanto necessaria a fermare tutte le iniquità che si generano con l’aumento del costo della vita – ha vari effetti collaterali che la rendono invisa alla classe politica: aumenta il costo dei mutui – un tema assai sensibile per l’opinione pubblica – e pone il rischio che l’economia non si limiterà a “raffreddarsi”, come si dice in gergo, ma che finirà per andare in recessione. Il compito delle banche centrali è proprio capire quanto e per quanto tempo è possibile tenere alti i tassi senza far crollare l’economia.

Da mesi la FED, il cui operato dovrebbe in linea di principio essere indipendente dalle dinamiche politiche, era al centro di grosse critiche da parte del candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti Donald Trump, secondo cui la banca centrale avrebbe dovuto evitare di prendere grosse decisioni sui tassi prima di un evento così importante come le elezioni presidenziali del prossimo 5 novembre. In vari discorsi Trump aveva alluso al fatto che la riduzione dei tassi – poi effettivamente decisa dalla FED – andasse letta come un atto politico contro di lui.

Non è la prima volta che l’ex presidente sostiene di essere penalizzato dalle scelte della FED: durante la campagna elettorale per le elezioni del 2016 accusò l’allora presidente Janet Yellen di aver mantenuto i tassi bassi per sostenere l’economia negli ultimi mesi dell’amministrazione del Democratico Barack Obama.

Trump ha detto più volte di aspettarsi lo stesso da Powell, accusandolo di aver ridotto i tassi per favorire il presidente uscente Joe Biden e i Democratici: questo nonostante Powell sia da sempre considerato vicino agli ambienti repubblicani, e sia stato scelto come presidente della FED proprio da Trump durante la sua amministrazione, nel 2018.

La maggior parte dei Repubblicani si è però discostata dalle accuse di Trump e anzi molti, anche a sinistra, stanno facendo notare che non solo i tempi sono maturi per una riduzione dei tassi, ma che lo erano già da tempo. È un’opinione diffusa anche tra una parte di economisti, secondo i quali la Fed ha aspettato troppo per abbassarli, rischiando la recessione. Buona parte delle altre banche centrali hanno già iniziato da mesi a ridurre i tassi: lo ha fatto per esempio la Banca Centrale Europea, che annunciò già a giugno il primo calo dei tassi, nonostante avesse iniziato i rialzi addirittura dopo la FED.

La decisione della FED è stata più combattuta rispetto a quella delle altre banche centrali, perché doveva decidere sulla base di segnali contrastanti: da una parte l’inflazione scendeva, ma dall’altra l’economia e il mercato del lavoro continuavano ad andare benissimo, rendendo incerta e non chiara la fine di tutte quelle forze di mercato che spingevano al rialzo i prezzi. Per la prima volta dal 2005 una dei 7 membri del direttivo della FED, la Repubblicana Michelle Bowman, ha votato contro la decisione finale, spiegando che avrebbe preferito una riduzione più contenuta.

Il Prodotto Interno Lordo statunitense, la misura più affidabile per constatare lo stato dell’economia, ha continuato in questi anni a crescere moltissimo, contro ogni previsione e nonostante tutti continuassero ad aspettarsi una recessione da un momento all’altro per via della politica della FED: l’economia statunitense si è dunque trovata nello scenario noto come soft landing, l’“atterraggio morbido” che si ha quando l’inflazione diminuisce proprio nella misura giusta, facendo rallentare i prezzi ma senza causare una recessione né un grande aumento della disoccupazione. Lo scenario opposto è il cosiddetto hard landing, ossia uno schianto dell’economia (letteralmente un “atterraggio duro”) che si verifica quando il tentativo delle banche centrali di fermare l’aumento dei prezzi sfocia in una grave recessione.

L’economia statunitense ha saputo reggere bene l’aumento dei tassi di interesse grazie agli enormi risparmi accumulati durante la pandemia dalle famiglie e dalle aziende, che le hanno aiutate ad attutire l’aumento del costo dei debiti senza ridurre troppo consumi e investimenti. Grazie a questi risparmi il tenore di vita delle persone è riuscito a non cambiare troppo, le aziende hanno continuato a vendere e ad assumere, e l’economia non ha mai smesso di andare bene. L’esperienza storica, quella per cui un notevole aumento dei tassi di interesse porta a una recessione, sembra dunque essere stata smentita, almeno finora.

All’inizio di agosto una serie di dati mediocri sul mercato del lavoro aveva però innescato una serie di crolli sui mercati finanziari che aveva fatto intendere che il clima fosse molto cambiato: era diffusa cioè l’idea che l’economia statunitense fosse già inevitabilmente diretta verso una crisi economica e che si stesse muovendo da uno scenario di soft landing a uno di hard landing. In quei giorni era anche circolata la voce che la FED avrebbe indetto una riunione straordinaria per ridurre già allora i tassi di interesse e stimolare l’economia, cosa che però non è avvenuta. Powell fece però capire che lo avrebbe però annunciato a settembre, e che fosse arrivato il momento di rendere meno penalizzante la politica monetaria e aiutare l’economia.

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