La fioritura dei turisti in Giappone
«Il periodo in cui mi trovavo a Kyoto coincideva con i pochi giorni di fioritura dei ciliegi, una occasione notoriamente sentitissima per i giapponesi che spesso accorrono nei luoghi più poetici dell’antica capitale, ma un motivo in più di attrazione per i turisti. Così ho deciso di raccogliere un po’ di impressioni dei kyotesi (aggettivo sostantivato non ancora nei dizionari, mi pare) riguardo al fenomeno dell’iperturismo nella loro città»
Chi visita il quartiere di Asakusa potrebbe pensare che alle ragazze giapponesi piaccia ancora indossare abiti tradizionali come kimono e yukata, ma non è esattamente così: le ragazze in quei tessuti colorati sono tutte turiste, perlopiù cinesi e di altri paesi asiatici. Questa è una delle esperienze turistiche possibili qui a Tokyo e in altre zone del Giappone: rivolgersi a uno degli sportelli che affittano i vestiti per qualche ora e, cosa ancora più importante, farsi aiutare a indossarli in un processo più lungo e laborioso di quanto si possa immaginare.
Il turismo straniero in Giappone è un fenomeno particolare perché ha subito un’evoluzione rapidissima bruciando le tappe che di solito caratterizzano questo settore in altre zone del mondo. Fino alla pandemia di Covid del 2020-2021, il numero di turisti stranieri in Giappone è salito gradualmente a circa 32 milioni nel 2019; poi il blocco forzato ha creato una sorta di tappo e alla riapertura le visite nel paese sono riprese a un ritmo ancora più intenso. Solo i primi sei mesi di quest’anno hanno visto un numero vicino ai 18 milioni. Se a Tokyo alcune zone si sono riconvertite allo sfruttamento commerciale turistico permettendo al resto della città di metabolizzare le presenze, la situazione a Kyoto è abbastanza diversa: durante l’ultima primavera mi è capitato di passarci qualche giorno per lavoro e ho visto una città quasi trasfigurata.
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Il quartiere in cui ho pernottato si trova ai piedi delle montagne sul limite settentrionale della città. È una zona abbastanza poco frequentata dai visitatori occasionali, eppure vari templi sono adesso preceduti da cartelli in inglese in cui si avvisa che l’ingresso è a pagamento (caso abbastanza raro in Giappone) e che è vietato fotografare gli esterni e i giardini (fatto inaudito, almeno per me). A detta di tutti la città accusa un afflusso esagerato di turisti e i trasporti pubblici sono messi a dura prova: sugli autobus cartelli in molte lingue chiedono per cortesia di non salire con valigie troppo voluminose che toglierebbero agli altri passeggeri il già risicato spazio. Non è però possibile vietare i bagagli, e i poster a bordo sono più che altro una gentile richiesta.
Il periodo in cui mi trovavo a Kyoto coincideva con i pochi giorni di fioritura dei ciliegi, una occasione notoriamente sentitissima per i giapponesi che spesso accorrono nei luoghi più poetici dell’antica capitale, ma un motivo in più di attrazione per i turisti. Così ho deciso di raccogliere un po’ di impressioni dei kyotesi (aggettivo sostantivato non ancora nei dizionari, mi pare) riguardo al fenomeno dell’iperturismo nella loro città.
Il primo locale in cui sono entrato è stato un bar che serve caffè e cappuccini e ha un angolo adibito alla vendita di vinili. Il proprietario mi ha accolto con un «Harō!» (la sua pronuncia per «Hello»), convertendo la lingua e l’atteggiamento in modalità giapponese appena gli ho chiesto un caffè. Gli ho domandato come andassero le cose e mi ha detto che rispetto ai mesi disperanti del coronavirus, gli affari gli vanno molto meglio, la gente visita il suo locale motivata soprattutto dalle foto virali che ha visto su Instagram, ordina il cappuccino o altro, fa la stessa foto che lo ha spinto a venire, con la bevanda e lo sfondo dei dischi, paga e se ne va contenta. Mentre racconta, un paio di coppie di statunitensi fa esattamente quanto descritto.
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Il proprietario del bar non ha il problema dei trasporti cittadini e delle valigie ingombranti dei turisti perché abita nel quartiere di Neyagawa, tra Kyoto e Osaka, prende il treno al mattino e raggiunge il posto di lavoro a piedi dalla stazione centrale, quindi per lui l’iperturismo ha praticamente solo lati positivi. Però mi dice: «Prova a visitare il mercato di Nishiki: lì vedrai una situazione abbastanza pazzesca».
Faccio come mi dice. L’ultima volta che sono stato a Nishiki era il 2020, in pieno
periodo di pandemia, quando il turismo interno era pressoché congelato e non c’erano stranieri in Giappone se non quelli residenti. Mi sono trovato in mezzo a una bolgia di gruppi di stranieri. Non si camminava per la densità e i capannelli davanti ai negozi. Mentre fino a pochi anni fa il mercato era principalmente costituito da banconi che vendevano verdure e pietanze da portare a casa, oggi quasi tutti i negozianti vendono street food da consumare lì, in piedi. Ogni quattro o cinque metri ci sono cartelli che invitano a non camminare con il cibo in mano ed effettivamente bastano pochi centimetri di disattenzione per ritrovarsi con la maglietta spalmata di salsa di yakitori o takoyaki.
Purtroppo i cibi sono di qualità scadente, lo si nota anche senza assaggiare, e i prezzi sono gonfiati di almeno il triplo rispetto al valore di mercato, anche considerando che non ci sono tavoli, sedie e servizio. Intorno a me sento parlare molto italiano, allora chiedo a una signora come sia il cibo che ha mangiato: «Tutto molto bòno! Ti ‘onsiglio l’anguilla che era ottima anche se noi ‘un si pensava!», mi risponde con un forte accento toscano. Non l’avevo messo in conto, ma mi accorgo che la signora mi vuole guidare perché pensa che io sia un turista. La cosa mi diverte molto e comincio a chiedere informazioni a tutti quelli che sento parlare in italiano. Comprendo finalmente un punto di vista che non avevo considerato: mangiare nel mercato permette di assaggiare molte cose diverse, e allo stesso tempo risparmia la fatica di dover scegliere un ristorante, sedersi, interagire con i camerieri, decifrare il menù, capire cosa arriverà. Qui si indica quello che si vuole mangiare, si paga, si agguanta lo stecchino con il polpo, il pollo o le capesante e si valuta se piace o no. Inoltre «l’è tutto fresco e noi un s’è avuto mal di pancia!».
Non tutti sono così entusiasti. Sento alcuni romani lamentarsi e intervisto anche loro: mi dicono che il posto è una trappola per turisti. Concludo la visita al mercato chiacchierando con un gruppo organizzato dove ci sono opinioni contrastanti: «C’è troppa confusione e folla, ma si sa che i posti turistici sono così, si può visitare ma è evitabile». Vedo negli occhi la loro delusione quando mi chiedono «Ma tu dove abiti?» e rispondo «Tokyo», poi cerco di mettere una pezza aggiungendo «Sono venuto in visita anche io».
A piedi raggiungo una zona adiacente. All’improvviso le stradine sono vuote, davanti ai ristoranti non c’è fila e si percepisce di nuovo la bellezza di Kyoto, le sue stradine intime, antiche. Capisco che il mercato funziona da sfogatoio dei turisti, come i templi più famosi e le linee di autobus alle cui fermate c’è una fila interminabile.
Ho ancora una parte di pomeriggio libero. Decido di andare in un’altra zona “calda” di Kyoto, Gion, il quartiere in cui, nei locali per banchetti, si dirigono le geiko per suonare e passare la serata con i clienti. Ultimamente alcune strade della zona sono state chiuse all’accesso a causa dei comportamenti maleducati di alcuni stranieri disposti a tutto pur di fermare una di queste ragazze per fotografarla. La vita delle geiko è completamente cambiata: tramontata l’era dei ricchi anfitrioni, il loro lavoro si è trasferito in un teatro dove si esibiscono per i turisti suonando e ballando. Il quartiere è sempre bello, ma la densità pedonale è tale che per regolarlo c’è bisogno dell’intervento dei vigili, che in realtà sono guardie giurate. Dopo pochi minuti torno verso Pontochō, la zona che costeggia il fiume, trovo un bar aperto e mi ci fiondo anche perché sta cominciando a piovere.
Il barista è un chiacchierone, lo si capisce dalle prime battute. Makoto (si chiama così) ha un passato da seminarista, è di Nagasaki ed è venuto a Kyoto per diventare prete, solo che il gestore del bar che frequentava (quello in cui ci troviamo) voleva cedere l’attività e lui si è offerto di rilevarla deviando il percorso della sua vita. In pochi minuti io e questo giovane uomo la cui storia forse meriterebbe un racconto a parte diventiamo amici e anche a lui chiedo un po’ di impressioni sui mutamenti che sta attraversando la città.
Mi spiega che gli affitti stanno diventando inaffrontabili per molti residenti, le case vengono demolite per costruire alberghi, la gente se ne va in province vicine come Shiga e intraprende una vita di pendolarismo che sta uccidendo la vita sociale della comunità. Un effetto collaterale, mi racconta, è che il whisky giapponese sta avendo un successo enorme all’estero: dall’inizio di aprile una bottiglia di una marca rinomata è passata dai 20mila yen ai 60mila, così, da un giorno all’altro: «Il whisky giapponese non è più per i giapponesi», dice. In cuor mio spero che i racconti di Makoto siano un po’ esagerati, ma allo stesso tempo mi pare di ascoltare il processo da cui è passata Venezia ma al doppio della velocità.
Mi accorgo che Makoto è così contento di chiacchierare con me che continua a inventarsi sconti inesistenti sulle bevande solo per farmele assaggiare e tenermi lì per tutta la durata di questo pomeriggio piovoso. Quando finalmente trovo il momento buono per salutarlo, mi accompagna fino al piano terra per regalarmi del caffè in un bicchiere di carta «per scaldarti mentre cammini».
Nelle settimane successive in Giappone i programmi televisivi pomeridiani di approfondimento parlano quasi soltanto del turismo, di cosa farne, se adottare o no, almeno nei ristoranti, una politica di prezzi diversi tra giapponesi (e stranieri residenti) e turisti. Mi rendo conto di essere influenzato dalla mia provenienza: vengo da un posto in cui l’ospitalità sottostà a certe regole precise (il Friuli) e per quattro anni ho vissuto in un altro (Venezia), in cui l’iperturismo ha modellato in modo implacabile il centro storico.
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Bisogna pensare che in Giappone fino a pochissimi anni fa il turismo consisteva in pochi sparuti visitatori che avevano un impatto insignificante sia sull’economia che sulla vita dei residenti. Adesso, anche spinto dalla debolezza dello yen, l’afflusso è diventato enorme e crea dei disagi anche dovuti alle differenze culturali: è famoso il caso del negozietto sovrastato dal monte Fuji scelto come foto irrinunciabile dai turisti che arrivano con i torpedoni. Per ridurre il disturbo, con una decisione involontariamente abbastanza comica, le autorità locali hanno deciso di coprire il panorama con un telo, che però è stato prontamente strappato dai turisti in posti strategici.
Il problema è che nelle città giapponesi, mediamente molto dense, il traffico è rigidamente regolamentato e anche una piccola disattenzione alle regole – come attraversare la strada dove non ci sono strisce pedonali o fermarsi all’improvviso intralciando il prossimo – provocano pericoli e disagi, oltre alla brutta impressione che «gli stranieri vengono qui e si comportano in modo irrispettoso verso di noi che siamo i padroni di casa».
A questo punto dovrei raccontare della mia visita al villaggio turistico nato nei pressi del mercato del pesce di Tokyo, nella zona di Toyosu. Si chiama Toyosu Senkyaku Banrai ed è un complesso costruito negli ultimi mesi in stile Edo (l’epoca conclusasi nel 1868) con negozietti, ristorantini, angoli instagrammabili e prezzi gonfiati. La verità è che non ce l’ho fatta, se proprio devo andare in zona preferisco andare in posti dove il pesce è buono ed economico, sperando che i miei ristoranti preferiti non diventino mai virali sui social.
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