Nei negoziati per Gaza litigano anche Israele ed Egitto
Per il controllo del confine sud della Striscia, noto anche come “corridoio Philadelphi”, che l'esercito israeliano ha occupato a maggio
Nei negoziati per un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza il grosso delle discussioni tra le parti riguarda le imposizioni e i contrasti tra Israele e Hamas, come per esempio l’organizzazione delle fasi del ritiro dell’esercito israeliano e l’amministrazione della vita civile nella Striscia. C’è tuttavia una questione, anche piuttosto delicata, che non riguarda direttamente Hamas, ma divide invece Israele ed Egitto: è la gestione del cosiddetto “corridoio Philadelphi”, cioè la linea di confine tra il sud della Striscia di Gaza e l’Egitto.
Israele aveva occupato militarmente il corridoio Philadelphi dal lato della Striscia di Gaza a maggio, quando aveva avviato la sua operazione militare nella città di Rafah. L’Egitto vorrebbe che nell’ambito di un accordo per un cessate il fuoco l’esercito israeliano si ritirasse dal confine, in modo da poter recuperare il controllo del varco di frontiera, che attualmente è chiuso. Israele però insiste per mantenere una presenza militare fissa, adducendo ragioni di sicurezza. La questione, poi, è ulteriormente complicata dal fatto che l’Egitto è uno dei paesi mediatori nei negoziati di questi mesi, assieme agli Stati Uniti e al Qatar.
I negoziati per un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza sono ripresi in questi giorni e dovrebbero andare avanti nel fine settimana: nonostante un intenso impegno degli Stati Uniti al momento sembra che un accordo non sia raggiungibile nel breve periodo. In questo contesto, la gestione del corridoio Philadelphi è piuttosto complicata da risolvere.
Israele sostiene che, per garantire la propria sicurezza e soprattutto per garantirsi la possibilità di nuove eventuali operazioni militari nella Striscia di Gaza, sia importante mantenere il controllo del corridoio. Ritiene inoltre che se la situazione tornasse com’era prima della guerra, con il varco di frontiera di Rafah controllato da una parte dall’Egitto e dall’altra dai palestinesi, ci sarebbe il rischio che attraverso l’Egitto possano essere contrabbandate armi e attrezzature per Hamas.
L’Egitto, al contrario, ritiene che la presenza israeliana al confine sia una violazione dell’accordo di Camp David del 1978, che fu importantissimo perché l’Egitto divenne il primo paese arabo a riconoscere lo stato di Israele, aprendo a una complessiva stabilizzazione della regione. L’anno successivo all’accordo fu aggiunto un dettagliato trattato di pace tra i due paesi, che tra le altre cose vietava a Israele di posizionare carri armati e artiglieria lungo il corridoio di Philadelphi.
Piccola nota: il nome “corridoio Philadelphi” non ha particolari origine storiche o etimologie interessanti. È semplicemente il nome in codice casuale che l’esercito israeliano diede a quel territorio di confine per individuarlo durante le sue operazioni militari, e da allora è rimasto noto così.
In queste settimane di negoziati per tentare di dirimere la questione sono state fatte varie proposte. Come ha raccontato il Wall Street Journal Israele ha proposto di ritirarsi ma di mantenere lungo il corridoio otto torri d’avvistamento. Gli Stati Uniti hanno proposto di ridurre queste torri a due. L’Egitto però ha continuato a sostenere che, finché ci saranno infrastrutture israeliane, non potrà davvero esercitare il suo legittimo controllo sul confine.
La questione ha anche creato alcune divisioni all’interno della leadership israeliana, perché è soprattutto il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu a insistere per mantenere una presenza militare fissa nel corridoio Philadelphi: «Israele continuerà a perseguire tutti i suoi obiettivi di guerra […], compreso l’obiettivo che Gaza non ponga più una minaccia alla sicurezza di Israele. Questo richiede mettere in sicurezza il confine meridionale», ha fatto sapere il governo in un comunicato.
L’esercito ritiene invece che sia possibile mantenere il necessario livello di controllo anche senza avere truppe sul campo, tramite per esempio sistemi di sorveglianza da remoto. Sia il governo sia l’esercito, tuttavia, vogliono mantenersi aperta la possibilità di intervenire militarmente in caso di nuove minacce.