San Luca, commissariato due volte
«Nel 2024 in questo paese della Calabria commissariato per ‘ndrangheta non si è votato perché non c’era nessuna lista e nessun candidato. La spiegazione che danno le istituzioni è la paura della ‘ndrangheta o dello scioglimento del comune per infiltrazione di ‘ndrangheta. La vera ragione è la radicalizzazione di un sentimento anti-Stato che, oltre a essere un problema di ordine pubblico, è un problema politico e un pericolo per la democrazia. Questa radicalizzazione fomenta e si nutre di ‘ndrangheta, certo, ma paradossalmente può diffondersi molto più della ‘ndrangheta stessa»
«Ma che ne sai tu davvero di quanto è bello il mio paese, che tutti conoscono solo per le sfortune capitate alla sua gente». Con un appassionato video su TikTok una utente racconta le bellezze bistrattate di San Luca, il paese in provincia di Reggio Calabria che più di ogni altro è conosciuto come roccaforte di ’ndrangheta. Peccato che le “sfortune” a cui si accenna siano faide, morti ammazzati, come quelli della strage di Duisburg del 15 agosto 2007, e tanto carcere.
Quest’anno a San Luca non si è votato perché non c’era nessuna lista e nessun candidato. La spiegazione che danno le istituzioni è la paura della ’ndrangheta o dello scioglimento del comune per infiltrazione di ’ndrangheta. La vera ragione è la radicalizzazione di un sentimento anti-Stato che, oltre a essere un problema di ordine pubblico, è un problema politico e un pericolo per la democrazia. Questa radicalizzazione fomenta e si nutre di ’ndrangheta, certo, ma paradossalmente può diffondersi molto più della ’ndrangheta stessa, tanto a San Luca che altrove.
La Commissione parlamentare antimafia, presieduta da Chiara Colosimo di Fratelli d’Italia, calcola che oggi a San Luca su 3.500 abitanti complessivi oltre 200 siano detenuti per reati legati alla criminalità organizzata, e altri 50 o 60 sarebbero sottoposti a qualche tipo di misura cautelare. Le cifre sono state fornite in una conferenza stampa che si è tenuta proprio a San Luca il 20 giugno scorso. Durante l’incontro, che si è svolto praticamente a porte chiuse nella caserma dei carabinieri, è stato anche annunciato un possibile doppio commissariamento del comune dovuto all’assenza di candidati alle ultime elezioni municipali.
La questione è ulteriormente complicata dal fatto che sei mesi prima la prefetta Clara Vaccaro aveva ottenuto dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi la delega per esercitare il potere d’accesso, che permette di prendere visione dei documenti amministrativi del comune. Ciò significa che a inizio luglio a San Luca si è insediata una commissione che dovrà verificare se negli ultimi cinque anni il comune sia stato infiltrato dalla ’ndrangheta. Allo stesso tempo però, a San Luca dovrebbe insediarsi un commissario anche per l’assenza di liste alle elezioni municipali. Considerato che l’amministrazione uscente è appunto decaduta, sembra paradossale volerla, eventualmente, anche sciogliere per mafia proprio quando guidata da un commissario.
I giornali locali si sono lamentati di aver ricevuto comunicazione della conferenza stampa solo all’ultimo momento. Le domande, inoltre, fatta eccezione per un’intervista alla Rai, dovevano essere fatte pervenire in anticipo. A questi lamenti si sono aggiunti quelli dei “santalucoti” – o sanluchesi – su TikTok: «E chi vinniru a fari, a spiarci picchì simu in guerra?» (traduzione: «E che sono venuti a fare, a chiederci perché siamo in guerra?»). E qui sta il nocciolo della questione. Tra le tante cose dette – molte delle quali, almeno in astratto, condivisibili – durante la conferenza stampa spicca questa dichiarazione della presidente Colosimo: «Questo territorio è rimasto ed è povero, triste, chiuso come l’abbiamo visto, perché io non ho incontrato nessun cittadino venendo qui». La ragione per cui la commissione non incontra nessuno, forse, è proprio che i sanluchesi si sentono «in guerra».
Nel motivare la sua rinuncia a presentarsi, il sindaco uscente Bruno Bartolo aveva denunciato con durezza l’abbandono da parte dello Stato che alle elezioni di cinque anni prima, per voce del prefetto Michele Di Bari, aveva promesso sostegno e aiuti a chi si fosse preso la briga di candidarsi e governare – sostegno e aiuti che naturalmente sono rimasti sulla carta. La spiegazione per l’assenza di candidati non è, quindi, la paura della ‘ndrangheta o il timore di ripercussioni legate al sospetto di contiguità alla ‘ndrangheta – con tutto quello che ne consegue in termini di avvisi di garanzia e commissioni d’accesso per sospetta infiltrazione – come hanno detto canali di informazione disattenti, tanto a livello locale che nazionale. È che la cosiddetta “guerra” è una forma di “disobbedienza civile” invocata fin troppo orgogliosamente dai cittadini di San Luca, chiusi in logiche da enclave incomprensibili all’esterno.
È quello che dicono tanti ragazzi e ragazze, sempre su TikTok: «Finalmente a San Luca qualcosa sta cambiando, questa è disobbedienza civile». E ancora: «San Luca guida la rivoluzione, non votare è l’unico modo per uscire dal Sistema». E la democrazia? A San Luca non sembra desiderabile. Nei commenti social alcuni auspicano di essere lasciati «soli, a badare a noi stessi», altri invocano una «lunga dittatura che metta a posto tutti». Una polarizzazione politica presente in tutte le democrazie contemporanee, che oscilla tra pulsioni anarchiche e voglia dell’uomo forte, ma che a San Luca – paese di ‘ndrangheta – non è meno rilevante dei problemi di ordine pubblico.
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La radicalizzazione di questo sentimento anti-Stato è in parte dovuta al fastidio per il modo con cui i giornalisti parlano di “mafialand” e filmano le strade con la gente che si nasconde dietro le serrande delle case. Ma soprattutto è causata dalla frustrazione per le parate delle autorità che quando vengono a San Luca accusano il paese di non reagire e i suoi cittadini per le diffuse collusioni, ma allo stesso tempo promettono supporto in cambio di fiducia. Anche durante la recente visita della Commissione parlamentare antimafia, le rassicurazioni si sono alternate a parole ai limiti dell’ingiuria verso la cittadinanza e l’amministrazione uscente.
La presidente Chiara Colosimo ha parlato, per esempio, di «inerzia totale in tutti i fatti salienti e importanti dell’amministrazione pubblica» e del «bisogno di sviluppare il cosiddetto senso civile». Ma ha anche aggiunto: «Noi abbiamo il compito di dire alle donne e ai bambini di questo territorio che cambiare si può e si deve»… «qui c’è bisogno di welfare, di lavoro, c’è bisogno di dire a questa gente che non è questo il modo in cui risollevare la propria terra. Abbiamo bisogno di uomini e donne liberi e io sono sicura che, nascoste dietro le serrande, ci sono. E se non ci dovessero essere arriverà lo Stato e li porterà dove è giusto che stiano». Il beneficio del dubbio, insomma, è negato da un’affermazione di forza che sfocia in una non tanto velata minaccia.
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Anelare a una «lunga dittatura» e all’essere «lasciati soli, a badare a noi stessi» sono due modi di chiedere ordine, l’ordine che la ‘ndrangheta e tutte le mafie promettono di assicurare istituendo mini-regimi autoritari in cui le relazioni sociali sono prevedibili e il potere è vicino, letteralmente il vicino di casa o addirittura dentro casa, un’autorità personale riconoscibile e non cangiante, come invece troppo spesso appare essere lo Stato.
Quello che lo Stato afferma riguardo alla ‘ndrangheta per molti a San Luca non ha senso. Può fare paura anche solo immaginarlo, ma la ‘ndrangheta che noi pensiamo di conoscere – tra le tante sentenze e atti giudiziari, i libri, le ricerche, le conferenze, le indagini di polizia e quelle dei bravi giornalisti che si avventurano nel tema – non è la stessa ‘ndrangheta che si (ri)conosce a San Luca o a Platì o ad Africo o in altri paesi aspromontani che in comune non hanno solo una storia di mafia drammaticamente radicata, ma anche – non casualmente – una storia di mancate candidature locali e di commissariamenti durati decenni.
La Commissione contrappone il “noi” dello Stato alla ‘ndrangheta di cui parla al singolare, come un nemico facile da identificare. Elenca cognomi temuti e conosciuti e fa riferimento alla holding internazionale del crimine che detiene il primato mondiale nel traffico di droga. «Noi conosciamo i nomi delle ‘ndrine, delle famiglie», ha detto la presidente Colosimo. «Sappiamo che quando parliamo di San Luca parliamo sicuramente di Pelle, Nirta, Strangio, Vottari, Mammoliti, Giorgi, Giampaolo, Romeo ma sappiamo che queste famiglie, quasi sempre, lavorano in coordinamento con i Barbaro, i Trimboli, i Morabito, i Palamara e i Bruzzaniti di Africo e potremmo allargare ancora il giro di nomi». E ha concluso: «Se volessimo sintetizzare con due termini un po’ giornalistici noi parleremmo di una holding internazionale che è capace di colonizzare l’Italia e il Mondo (…) una criminalità organizzata che qui è particolarmente dedita e rivendica un ruolo di primato mondiale sul traffico internazionale di stupefacenti ma che non ha abbandonato le tradizionali attività predatorie». Tutto vero, ma la ‘ndrangheta che si conosce in questi paesi non è questa.
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In paesi come San Luca la ‘ndrangheta assume le sembianze del figlio della tua migliore amica sotto processo a Düsseldorf o di un tuo nipote carcerato al nord a cui augurare sui social «pronta libertà». A San Luca la ‘ndrangheta è la ragione per cui un bambino che cresce senza il padre, perché in carcere, finirà per incolpare le forze dell’ordine e a sentire che la sua famiglia è perseguitata. ‘Ndrangheta a San Luca significa abitare vicino a un uomo che ogni giorno riceve la visita dei carabinieri perché è agli arresti domiciliari e vuol dire vedere sua figlia che non trova lavoro, ché lavoro non ce n’è, figurarsi per i figli dei mafiosi. La ‘ndrangheta a San Luca si nutre di legami quotidiani e di nostalgia verso idee astratte e illusorie che parlano di attaccamento alla tradizione, di affetti familiari e di una concezione del “rispetto” che alimenta una solidarietà assoluta verso gli “amici” e di assoluto disprezzo per chi tradisce quel cerchio di malsana fiducia.
In paesi come San Luca spesso si fa apologia di ‘ndrangheta senza neppure rendersene conto. Lo si fa ogni volta in cui, in fondo, la si giustifica come un male minore che nemmeno vedi perché in fondo, ormai lo dicono tutti, «è globale», laddove il male maggiore è piuttosto l’acqua che manca, il lavoro che non c’è e il senso di isolamento perpetuo di un paese dove le strade non esistono oppure franano. La ‘ndrangheta si accetta anche quando si fa il pellegrinaggio per Polsi – il santuario della Madonna della Montagna, luogo mariano per eccellenza situato proprio nel comune di San Luca – lungo un percorso ormai quasi impraticabile per gli smottamenti e le buche diventate voragini. O quando si piangono i tanti che perdono la vita sulla Statale 106, proprio come è successo a quattro ragazzi morti nel gennaio 2024 in un incidente stradale mentre stavano andando al carcere di Catanzaro a visitare parenti detenuti (in paese si sono stigmatizzati i titoli dei quotidiani che hanno sottolineato il legame tra l’incidente stradale, la ‘ndrangheta e il carcere).
In paesi come San Luca la ‘ndrangheta si identifica con la migrazione vissuta da tutti, mafiosi e non mafiosi, come una costrizione e un trauma necessario alla sopravvivenza. La ‘ndrangheta qui è ancora vissuta come una reazione all’isolamento e come una necessità imposta da uno Stato ambiguo, miope e inaffidabile. La ‘ndrangheta a San Luca, molto prima che un’organizzazione criminale, è la matrice oscura di un’ideologia della “resistenza” contro la “storia” implacabilmente “contro” e contro tutti quelli che non capiscono «quanto è bello il mio paese che, nonostante le sue sfortune, è il posto più bello del mondo».
E qui si ritorna a quell’idea di ordine sociale che la mafia, nel degrado che essa stessa ha generato, è ancora capace di prospettare. La Commissione parlamentare antimafia in visita a San Luca, sebbene animata da buone intenzioni, non ha realizzato che con le accuse, le velate minacce, l’esecrazione per la diffusa illegalità e il mancato senso civico, non si fa altro che aumentare lo scollamento tra chi parla e chi dovrebbe ascoltare. Se lo Stato vuole avere una chance a San Luca e innescare la rinascita civile del paese, la prima cosa che deve fare è estendere il concetto di vittima non solo agli innocenti, ma anche a chi, in un contesto così ambiguo, non riesce o non è capace di diventare eroe. Vittima a San Luca può essere anche chi ha genitori, cugini, fratelli, amici ’ndranghetisti. Vittima può essere anche chi, purtroppo, comprensibilmente abbraccia sentimenti di amore verso la sua famiglia, e valori come rispetto, onore, fratellanza, e in questo modo finisce per legittimare inconsapevolmente o indirettamente le distorsioni manipolatrici dell’ideologia della ’ndrangheta.
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