Il Giappone smetterà di essere un paese amato dagli investitori internazionali?

La decisione della banca centrale di aumentare i tassi di interesse ha attenuato alcune condizioni favorevoli che esistevano da quasi vent'anni

Un display della borsa di Tokyo (Tomohiro Ohsumi/Getty Images)
Un display della borsa di Tokyo (Tomohiro Ohsumi/Getty Images)
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Nelle ultime settimane i grossi e improvvisi cali nei mercati finanziari di mezzo mondo sono stati spiegati soprattutto dai timori di una possibile recessione negli Stati Uniti e dal crescente clima di scetticismo intorno alle grandi aziende di tecnologia che hanno investito nell’intelligenza artificiale. Tra le borse che più ne hanno risentito c’è stata quella del Giappone: lunedì 5 agosto in un solo giorno ha perso il 12,4 per cento del valore dei titoli, il calo più grande dal 1987 (poi parzialmente recuperato). Il crollo però presenta ragioni e tendenze tutte sue, e che si discostano parzialmente dai cali registrati nelle borse occidentali.

Il motivo principale risiede nella scelta della banca centrale giapponese di alzare i tassi di interesse per la seconda volta nel giro di qualche mese per combattere l’inflazione e l’ormai cronica debolezza dello yen, la valuta locale, dopo quasi vent’anni in cui in Giappone i tassi di interesse erano stati addirittura negativi per tentare di ravvivare un’economia che non cresceva. Questa decisione ha messo in crisi una strategia di investimento assai popolare tra i grandi investitori internazionali: cioè il carry trade, che consiste nel prendere a prestito soldi dove i tassi sono più bassi e la valuta è al ribasso – è il caso del Giappone e dello yen – per reinvestirli dove i tassi sono più alti e la valuta più forte, come in Occidente.

La differenza tra il costo di prendere a prestito in yen e quanto si guadagna investendo altrove rappresenta il profitto del carry trade, che sarà maggiore tanto più la banca centrale giapponese tiene i tassi bassi e tanto più quelle occidentali li tengono alti.

Facciamo un esempio pratico: un investitore prende a prestito 15 mila yen (circa 100 dollari) al tasso dell’1 per cento, per poi convertirli in dollari e investirli in titoli di stato negli Stati Uniti, che garantiscono un tasso di interesse del 5 per cento. Semplificando molto i calcoli, alla fine su questo investimento ci avrà guadagnato il 4 per cento, cioè la differenza tra il tasso dell’investimento e il costo del prestito. A questo va aggiunto anche l’eventuale guadagno sul cambio: se nel periodo dell’investimento lo yen si è deprezzato ci vorranno meno dollari per rimborsare il prestito originario. Per le operazioni di cui stiamo parlando, di importi generalmente assai alti, solitamente le commissioni per il cambio della valuta sono trascurabili.

Il carry trade è dunque una sorta di arbitraggio: si chiama così in economia quella situazione in cui gli operatori cercano di trarre vantaggio da un differenziale temporaneo nei prezzi, e in questo caso dei tassi di interesse. Di solito una situazione di arbitraggio si corregge in fretta, e il vantaggio è limitato nel tempo. Non è successo col Giappone, dove le decisioni della banca centrale hanno alimentato questa tendenza per anni.

Trader nella borsa di New York (Michael M. Santiago/Getty Images)

Fare operazioni col Giappone in carry trade ha iniziato a essere conveniente dal 2007, quando il Giappone aveva abbassato i tassi di interesse a livelli molto più bassi di quelli dei paesi occidentali. Dalla crisi finanziaria del 2008 e dalla crisi dell’euro i tassi di interesse si sono progressivamente abbassati anche in Occidente – sebbene nei paesi dell’euro molto più che negli Stati Uniti – e dunque la sua convenienza si era ridotta.

Da quando però è tornata l’inflazione e le banche centrali di quasi tutto il mondo hanno iniziato ad aumentare i tassi di interesse per fermare l’aumento dei prezzi, fare operazioni in carry trade è tornato a essere assai allettante. Mentre dal 2022 le banche centrali occidentali, come la Banca Centrale Europea e la Federal Reserve statunitense, hanno aumentato rapidamente e consistentemente i tassi di interesse, nell’ordine di anche 4 punti percentuali, quella del Giappone li ha tenuti fermi, andando totalmente controcorrente. Il divario fra i tassi è tornato ampio, e così anche la convenienza a prendere a prestito in yen per investire in altri paesi.

Negli ultimi due anni dunque le operazioni fatte in carry trade sono aumentate tantissimo: secondo le stime della banca ING i prestiti in yen fatti da investitori non giapponesi è cresciuto di più di 700 miliardi di dollari dalla fine del 2021.

La politica di bassissimi tassi di interesse portata avanti per 17 anni dalla banca centrale giapponese unita alle massicce operazioni di carry trade hanno contribuito peraltro al forte indebolimento dello yen: prendere a prestito grandi quantità di soldi in valuta giapponese ha fatto scendere gradualmente il suo valore. Alla fine di giugno ci volevano più di 160 yen per ottenere un dollaro, un dato che non si vedeva dalla fine degli anni Novanta; è il 45 per cento in più rispetto a inizio giugno del 2021, quando ne servivano poco più di 110. Dopo i movimenti delle ultime settimane il tasso di cambio è sceso sotto i 150 yen per un dollaro.

Il forte deprezzamento dello yen ha contribuito a sua volta all’aumento dell’inflazione in Giappone, che fino a poco tempo fa era rimasto immune all’aumento dei prezzi che invece ha interessato praticamente tutte le economie avanzate. La debolezza della valuta locale rispetto alle altre monete internazionali ha reso molto più care di un tempo le importazioni di merce straniera, di conseguenza è salito il valore delle importazioni e poi il costo generale della vita. Le importazioni erano già a loro volta più care rispetto a qualche anno fa, per effetto dell’inflazione nei paesi di provenienza delle merci. Di conseguenza in primavera era diventato praticamente impossibile per i giapponesi più poveri comprare prodotti dall’estero.

Display della borsa di Tokyo (Tomohiro Ohsumi/Getty Images)

Questa situazione ha infine portato all’annuncio di marzo della banca centrale giapponese di aumentare i tassi di interesse per la prima volta dopo 17 anni, in modo da fermare l’aumento dei prezzi e soprattutto il deprezzamento dello yen. La decisione è stata poi replicata a fine luglio, con un secondo rialzo che ha innescato così una grossa inversione di tendenza da parte degli investitori internazionali dipendenti dal carry trade.

La correzione è stata poi accentuata dal fatto che proprio negli stessi giorni si è anche rafforzata la certezza che la Federal Reserve, la banca centrale statunitense, stia per decidere una riduzione dei tassi, che in senso opposto renderebbe ancora meno conveniente il carry trade. La Federal Reserve sta pensando di ridurre i tassi – quindi di facilitare l’accesso a prestiti e mutui – perché negli Stati Uniti il problema dell’inflazione è considerato più o meno risolto, e anzi sono diventati molto concreti i timori di una recessione.

La minore convenienza del carry trade ha dunque provocato un disinvestimento generale nella borsa giapponese, e quindi i grossi cali del valore dei titoli. Con un effetto un po’ a cascata potrebbe anche aver contribuito ai cali osservati nelle borse occidentali.

Il carry trade si chiude vendendo innanzitutto i propri titoli nel contesto più remunerativo, cioè il paese dove i guadagni sono maggiori, che sono quelli che si ricavano da azioni o titoli di stato statunitensi, per poi convertire i soldi guadagnati in yen per rimborsare il debito contratto originariamente in Giappone: riuscendo comunque a farci una cresta non indifferente. Tantissime operazioni di questo tipo hanno causato sia parte dei cali nelle borse occidentali che un improvviso e sostenuto aumento nel valore dello yen, il quale a sua volta ha alimentato la chiusura di altre posizioni di carry trade rese meno convenienti dal rialzo della valuta locale: un circolo notevole in cui alla fine ci hanno perso sia le borse occidentali – indebolite dai disinvestimenti causati dalla minore convenienza del carry trade – sia quella giapponese, per via della fine delle scarse prospettive future del carry trade. Secondo la grande banca d’affari JP Morgan nel giro di una settimana sono stati chiusi circa due terzi delle posizioni in carry trade a livello mondiale.

Il repentino rafforzamento dello yen ha avuto anche un altro effetto collaterale: quello cioè di far temere per gli affari delle grandi aziende esportatrici giapponesi, come quelle tecnologiche o automobilistiche, che negli ultimi anni hanno molto beneficiato della valuta debole per vendere all’estero. Le esportazioni sono più convenienti per gli acquirenti stranieri se la valuta con cui sono fatti gli acquisti si deprezza: ci sono voluti cioè meno dollari o euro per comprare una macchina Toyota o una tv Panasonic in yen. Il risultato è stata una vendita massiccia dei titoli di queste aziende, assai importanti sui mercati finanziari giapponesi, che quindi ne hanno determinato il grosso calo dopo anni in cui la borsa del Giappone era andata in realtà molto bene, e in cui aveva anche rappresentato un’ottima alternativa alla Cina per chi voleva investire in Asia.

– Leggi anche: L’inflazione in Giappone ha poco a che fare con quella degli altri paesi