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  • Giovedì 8 agosto 2024

Julio Velasco non è mai stato solo un allenatore

Trent'anni fa divenne ricercatissimo dai media e dalla politica, indicato come “maestro” e “filosofo”: oggi allena la nazionale femminile di pallavolo

Julio Velasco festeggia la vittoria della Nazionale contro la Repubblica Dominicana a Parigi, il 28 luglio del 2024 (AP Photo/ Alessandra Tarantino) 


Associated Press / LaPresse
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Julio Velasco festeggia la vittoria della Nazionale contro la Repubblica Dominicana a Parigi, il 28 luglio del 2024 (AP Photo/ Alessandra Tarantino) Associated Press / LaPresse Only italy and Spain
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C’è stato un momento, a metà degli anni Novanta, in cui Julio Velasco finiva spesso sui giornali sportivi, nelle pagine della cultura dei quotidiani, nelle foto dei rotocalchi, nei programmi televisivi di intrattenimento e di approfondimento, tra le ipotesi di candidature politiche. Velasco in quel momento allenava la nazionale maschile italiana di pallavolo, che era fatta da una generazione di giocatori che viene considerata la più forte di sempre. Ma non era solo un allenatore importante: veniva descritto anche come maestro, guru e filosofo. Spesso veniva interpellato su questioni che non riguardavano lo sport: lui la maggior parte delle volte si rifiutava di rispondere, ma quando lo faceva diceva sempre qualcosa di intelligente, spesso di “ispirante”, cosa che finiva con l’alimentare quel fenomeno.

Oggi Julio Velasco ha 72 anni e allena la nazionale femminile di pallavolo che stasera alle 20 giocherà la semifinale olimpica contro la Turchia. Trent’anni dopo l’interesse attorno a lui non è più quello di allora, ma Velasco continua a ottenere importanti risultati sportivi, oltre che numerose attenzioni mediatiche: l’Italia femminile, che allena dall’inizio del 2024 e non era mai arrivata in semifinale alle Olimpiadi, lo ha fatto vincendo tutte e quattro le partite e perdendo solo un set.

Dagli anni Novanta a oggi Velasco ha avuto una carriera piena di esperienze. Tra le altre cose ha allenato diverse nazionali di pallavolo (tra cui l’Italia sia maschile che femminile negli anni Ottanta e Novanta), è diventato dirigente nel calcio e ha cominciato a tenere corsi di leadership e team building per aziende private. A maggio del 2019 annunciò la fine della sua carriera da allenatore e andò a fare il direttore tecnico del settore giovanile nella federazione italiana di pallavolo. Poi però ad aprile del 2023 a sorpresa tornò ad allenare, con la Uyba Busto Arsizio femminile (squadra di Serie A1), e a novembre accettò infine di tornare a essere l’allenatore della nazionale femminile al posto di Davide Mazzanti.

Julio Velasco durante le Olimpiadi del 1996 (LA PRESSE)

Velasco è nato a La Plata, in Argentina, da padre peruviano, morto quando aveva sei anni, e da madre argentina di origine inglese. Studiò filosofia negli anni della dittatura militare argentina, poi abbandonò gli studi a pochi esami dalla laurea per trasferirsi a Buenos Aires. In quel periodo era un militante comunista, aveva visto arrestare alcuni amici e anche un fratello minore, di cui non ebbe notizie per alcuni mesi. Raccontò di aver voluto cambiare città e frequentazioni anche per essere meno “osservato”.

Si era avvicinato alla pallavolo negli anni del liceo e dell’università, iniziando a giocare (ma mai a livello professionistico) e poi ad allenare squadre giovanili. A Buenos Aires fece vari lavori e anche lì allenò prima squadre giovanili, poi club di prima divisione. Nel 1982 fu viceallenatore della nazionale argentina che vinse il bronzo ai Mondiali. Alcuni giocatori italiani lo segnalarono al presidente della squadra di Jesi, che gli affidò la squadra nel 1983. Cominciò a ottenere grandi successi in Italia quando passò alla Panini Modena, dal 1985.

Vinse quattro scudetti di fila, ma a quel punto la sua fama era ancora limitata al mondo della pallavolo. Le cose cambiarono quando nel 1989 venne chiamato ad allenare la nazionale italiana: al tempo l’Italia della pallavolo non aveva vinto praticamente nulla. I club, anche molto finanziati e rinforzati con alcuni dei migliori giocatori al mondo, vincevano anche in Europa, ma la nazionale era regolarmente battuta. C’è una frase molto potente che da anni viene attribuita a uno dei primi discorsi che Velasco fece per presentarsi ai giocatori della nazionale. Non è chiaro se l’abbia mai effettivamente pronunciata e se l’abbia detta davvero così, ma il solo fatto che circoli è emblematico del carisma che gli viene riconosciuto da decenni: «Voi italiani siete i migliori del mondo per ciò che riguarda mangiare, bere e vivere bene. O almeno credete di esserlo. Ma tra queste righe gialle qui, quelle che racchiudono i 18 metri del campo, le beccate sempre dai sovietici, dai bulgari, dai polacchi, dalla Germania Est. Il vostro primo nemico siete voi. Da adesso si gioca per vincere».

Lo stesso anno vinse il primo Europeo, e iniziò il ciclo di quella che venne definita la “generazione di fenomeni”: due Campionati del mondo (1990, 1994), tre Campionati europei e cinque World League (una competizione annuale per nazionali sostituita di recente dalla Nations League). Nelle sue nazionali c’erano grandi giocatori, come Lorenzo Bernardi, Luca Cantagalli, Andrea Lucchetta, Andrea Zorzi, Andrea Giani, Paolo Tofoli, Pasquale Gravina, Marco Bracci e Andrea Gardini. Diventarono noti anche fuori dal mondo della pallavolo, ma sopra tutti, nella considerazione mediatica, c’era Julio Velasco.

Il suo accento argentino, la sua capacità di analisi, le sue frasi ad effetto e le definizioni diventate celebri, come «gli occhi della tigre» che chiedeva ai suoi giocatori, lo resero molto noto.

Nei primi anni l’attenzione mediatica su Velasco, non espressamente ricercata ma nemmeno rifuggita, aiutò la squadra. Cantagalli disse: «Julio fa credere a tutti di poter essere un campione». L’Italia vinceva sempre e Velasco piaceva a tutti, senza divisioni politiche, anche se lui esprimeva pareri politici, tanto da essere indicato come un possibile candidato per la sinistra, prima o poi. Era il momento in cui era su tutti i giornali, anche quando l’Italia non giocava, e in cui lo invitavano in molte trasmissioni televisive, a fare lezioni: di sport, di leadership, di valori, di vita.

Velasco riusciva a trasformare discorsi di sport e aneddoti di pallavolo in simboli di cose più grandi. L’esempio più noto è quello della cultura degli alibi, in cui schiacciatori, palleggiatori e ricevitori si scaricano uno sull’altro le colpe di un attacco sbagliato. Negli anni Velasco l’ha ripetuta più volte, con più particolari o all’interno di un discorso più ampio. Tutte valgono la pena di essere ascoltate, quella qui sotto è una delle prime, in cui manca il finale in cui ai ricevitori non resta che scaricare le colpe sull’elettricista, per un faretto messo male, o sul bidello, che non ha oscurato bene una finestra: «Se cambiamo il bidello, vinciamo le partite!».

La sua fama superò anche la prima delusione, un’eliminazione ai quarti all’Olimpiade di Barcellona 1992. Quattro anni dopo ad Atlanta l’Italia perse ancora in finale, contro i Paesi Bassi. Qualche giocatore privatamente aveva cominciato a lamentarsi della sovraesposizione del tecnico, che dopo l’eliminazione si dimise: «Lascio perché ho semplicemente dato il meglio di me stesso e perché c’è stata troppa identificazione, che è un male sia per me, sia per il collettivo. Troppa pressione, e poi l’identificazione della squadra con la mia persona. Basti pensare che durante le Olimpiadi qualche giornale ha titolato “Velasco affronta la Jugoslavia”».

L’anno dopo diventò allenatore della nazionale femminile, poi guidò le nazionali ceca, spagnola, iraniana e argentina, ma anche quattro squadre di club italiane. In mezzo ci fu l’esperienza nel calcio: nel 1998 Sergio Cragnotti, proprietario della Lazio, lo chiamò per diventare direttore generale del club. Cragnotti era il proprietario della Cirio (poi fallita) e in quegli anni non badava a spese: si parlò di un contratto da un miliardo di lire l’anno (quasi un milione di euro attuali) per quattro anni.

Velasco non aveva competenze calcistiche, ma doveva portare «cultura vincente», organizzare la società, sovrintendere: in realtà i suoi compiti e i suoi poteri non erano ben definiti e portarono a una precoce separazione. Quando si liberò, lo assunse Massimo Moratti all’Inter, come responsabile dell’area fisico-atletica.

Julio Velasco direttore generale della Lazio nel 1998 (ANSA/DM)

Tornò alla pallavolo, ma tornò a parlare anche di altro. Ancora oggi tiene lezioni in ambito aziendale, il cui obiettivo è ispirare dirigenti e dipendenti a ottenere più risultati e migliori condizioni di lavoro, con una serie di principi e discorsi elaborati nel tempo. A volte sono semplici e efficaci, come l’invito a rischiare («Uno non può avere il posto fisso alle Poste e una vita spericolata come Vasco Rossi, insieme»), altre volte sono meno classici e più elaborati, come l’analisi dei concetti di vittoria e sconfitta o la definizione del talento.