La brandizzazione del mare (e della terra)

«La moda si sta appropriando di paesaggi in tutto il mondo, anche in Italia. Il caso più recente è il marchio scandinavo Toteme, che ha appena inaugurato un punto vendita temporaneo a Filicudi, nelle isole Eolie. Prima c'erano stati Burberry nel deserto di Dubai, in Corea del Sud e su un vulcano alle Canarie; Bottega Veneta a Seul e i bagni di Valentino, D&G, Gucci, Dior, Loro Piana sulla costiera amalfitana, a Portofino, Forte dei Marmi e Saint-Tropez. Quello che sta avvenendo è un passaggio da località a location, in cui si fonde l’identità del luogo con quella del marchio»

Lo store Prada a Marfa, nel 2012. L'installazione, concepita dagli artisti danesi Elmgreen e Dragset come critica al consumismo, ha trasformato un paese di 2 mila abitanti nel Texas occidentale in una popolare meta turistica(AP Photo/Matt Slocum, File)
Lo store Prada a Marfa, nel 2012. L'installazione, concepita dagli artisti danesi Elmgreen e Dragset come critica al consumismo, ha trasformato un paese di 2 mila abitanti nel Texas occidentale in una popolare meta turistica(AP Photo/Matt Slocum, File)

La macchia profumatissima che porta a una caletta poco battuta nel nord della Sardegna è entrata nella mia vita – o meglio, sono io a essere entrata nella sua? – quando avevo otto anni. La conoscono in pochi, è frequentata quasi solo da chi abita nei dintorni. Se chiudo gli occhi posso ripercorrere esattamente le sue curve, sentire sotto i piedi la consistenza del terreno cambiare.

Ciottoli, sabbia, radici, sassi, di nuovo sabbia. Acqua.

È qui che torna il mio pensiero quando penso a come la moda, materia di cui mi occupo studiandone il rapporto con la sostenibilità umana e ambientale, si sta appropriando di luoghi, coste e paesaggi in tutto il mondo, anche in Italia. Il caso più recente, quello che mi ha fatto interrogare sulla deriva e sulle conseguenze di questo fenomeno, è quello del marchio scandinavo Toteme, che ha appena inaugurato una residency – un punto vendita temporaneo – a Filicudi, nelle isole Eolie. Nei mesi di luglio e agosto una vecchia casa di pescatori abbandonata sulla piccola spiaggia finora incontaminata di Pecorini a Mare ospita uno spazio vendita del marchio svedese.

In pochi giorni, secondo gli isolani, un’efficientissima squadra di produzione ha trasformato i muri di quel caratteristico cubotto ai piedi delle rocce dipingendoci sopra un grande logo bianco e blu. Un intervento che insegue ovviamente l’occasione instagrammabile, ma che si integra a fatica nell’estetica discreta e a tratti dimessa di Filicudi, dove notoriamente scarseggiano anche gli esercizi commerciali primari.

Quando penso all’interazione della moda con il paesaggio, mi viene subito in mente Prada Marfa, l’installazione realizzata dagli artisti danesi Elmgreen & Dragset che nel 2005 hanno costruito un negozio fittizio del brand milanese nel mezzo del deserto texano. L’opera, non collegata direttamente a Prada e concepita inizialmente per essere temporanea, voleva essere una critica al consumismo statunitense e a quello che viene definito travel retail, ovvero quel fenomeno per cui i brand investono in operazioni commerciali temporanee dettate dallo studio del traffico e dei flussi turistici. È buffo pensare come la critica al consumismo di Elmgreen & Dragset si sia presto ribaltata nel suo contrario. In breve tempo l’installazione è divenuta iconica e, paradossalmente, simbolo della cultura dei selfies e della tendenza ormai di massa a condividere e geotaggare ogni tappa dei propri spostamenti.

Negli ultimi anni la moda ha scoperto ed esplorato il potenziale dei pop-up stores, spazi temporanei esplosi dalla seconda metà degli anni 2000 il cui successo è fondato sull’unione tra percezione dell’effimero e senso di esclusività, senza mai però interrogarsi sull’impatto sul territorio.

Ma l’operazione di brandizzazione del paesaggio è passata anche attraverso installazioni e spazi immersivi, e non soltanto dai negozi. Burberry, per esempio, ha riprodotto il proprio logo in larga scala nel deserto di Dubai, creato una struttura temporanea nell’area naturale dell’isola di Jeju, in Corea del Sud, e dipinto – sebbene con vernici naturali – il suo iconico pattern a quadri su 4.500 metri quadri del terreno vulcanico di El Hierro, isole Canarie, oltre che nella regione sudafricana di Western Cape. Nel 2021 Bottega Veneta ha allestito a Seul un grande labirinto a pianta triangolare di 16 metri per lato, interamente rivestito del verde brillante che caratterizza il brand dall’arrivo del direttore creativo Daniel Lee.

L’ultima tendenza che piace molto alla moda è quella dei beach clubs, che in Italia chiamiamo stabilimenti balneari o lidi. Qualcuno lo definisce l’effetto White Lotus, la serie televisiva che racconta le vicissitudini degli ospiti di un resort hawaiano (prima stagione) e siciliano (seconda). Sta di fatto che dai bagni Loulou di Saint-Tropez personalizzati da Gucci, passando per Loro Piana con la sua operazione analoga al poco distante La Réserve à la Plage e ai Bagni Piero di Forte dei Marmi, arrivando al Clubhouse by the Sea scelto da Valentino sulla costiera amalfitana, questa tendenza sembra destinata a permeare sempre più le coste italiane.

La baia di Paraggi, vicino Portofino, è un caso abbastanza emblematico. La spiaggia nell’area marina protetta, che oggi viene definita “distretto del lusso” della Liguria, è occupata in larga parte da stabilimenti balneari, tra cui spiccano il Carillon di Dolce&Gabbana e i Bagni Fiore, recentemente rinnovati da Dior.

«La zona è sempre stata chic, e i bagni piuttosto cari, ma ora sono del tutto inaccessibili per la popolazione locale» mi ha raccontato Silvia Pesaro, che frequenta la zona e ha fondato Tuss Edizioni, una casa editrice di Genova specializzata in temi ambientali e legati al territorio. «Ormai da tempo la spiaggia pubblica, di dimensioni irrisorie, è impraticabile». Anche per questo motivo da qualche anno ogni 14 luglio il Coordinamento nazionale Mare Libero, nato con l’intento di restituire il mare e le spiagge alla collettività, organizza la “Presa della Battigia”, invasione pacifica dei lidi da parte dei bagnanti in varie località italiane.

«È in atto una vera e propria mercificazione del territorio. Le attività commerciali locali sono sparite da tempo» aggiunge Silvia Pesaro durante la nostra telefonata. «È avvenuto un passaggio da località a location, in cui si fonde l’identità del luogo con quella del marchio. E questo è pericolosissimo».

Con il turismo internazionale raddoppiato rispetto all’estate scorsa e un netto aumento del pubblico statunitense in Europa, a essere colpite non sono soltanto le località turistiche più battute, come Portofino, Capri o Mykonos – peculiare che ci si trovi spesso a elencarle come caselle intercambiabili senza più un’identità precisa, non è vero?

Mi ha molto colpito venire a conoscenza anni fa, attraverso il mio lavoro, di come tra i compiti della figura del ‘retail analyst’ ci sia quello di suggerire ai brand su quali nuove mete puntare negli anni a venire. Nelle liste dei posti migliori dove aprire negozi temporanei in Europa, come quella pubblicata da Vogue Business, compaiono man mano località sempre meno note e, di conseguenza, più autentiche e incontaminate.

«Il suo paesaggio, tra montagne, laghi glaciali e spiagge, offre un setting ideale per i brand», scrive Aoife Byrne, analista della piattaforma Edited, parlando del Montenegro che ho girato in tenda quattordici anni fa, grazie alle mie prime buste paga, abbagliata dalla purezza di quei luoghi, che presto probabilmente non avrà più quella forma e che già allora cominciava a presentare delle piccole crepe. E Amalfi, Bellagio, Saint-Tropez: quand’è che le loro, di crepe, hanno cominciato a farsi crateri? E quando abbiamo smesso di stupircene?

La recente ondata, ormai quasi nauseante, di romanticizzazione della “vita lenta” mediterranea indotta da Instagram e TikTok ha attirato orde di turisti internazionali attratti da un’idea totalmente idealizzata e poco realistica di luoghi diventati virali (salvo poi lamentarsene tra un reel e una story), con conseguenti omologazione e appiattimento del territorio. Osservando post e reel sempre uguali – ho fatto parte anche io di tutto questo? – mi chiedo ogni giorno di più se e quando la moda prenderà consapevolezza del proprio impatto ambientale, non solo in termini di produzione, ma anche di comunicazione e vendita. Possibile che sia tutto lecito? Siamo davvero disposti a svendere il nostro paesaggio, i nostri luoghi, i nostri ricordi? E fino a che punto? È possibile che non esista nessun tipo di tutela contro la brandizzazione del mondo?

Chissà cosa avrebbe pensato della casa di pescatori brandizzata a Filicudi Ettore Sottsass, che qui trovava sovente rifugio e di cui diceva: «A Filicudi ho una piccola casa dove vado tutte le estati e dove lavoro. Tutti i lavori più carini che ho fatto, non avrei potuto farli in un’altra solitudine».

La bellezza dell’Italia attrae, vende, monetizza, ma noi, a quanto pare, non riusciamo a proteggerla.

Silvia Osella
Silvia Osella

È una consulente nel campo della moda, di cui indaga l'impatto sociale e ambientale. Ha lavorato con alcune tra le più importanti aziende tessili europee e gruppi internazionali su ricerca e sviluppo prodotto, con particolare attenzione a sostenibilità e innovazione. Ha tenuto corsi di formazione per designer e docenze in istituti universitari come Domus Academy e Istituto Marangoni, e collabora con testate italiane e internazionali trattando tematiche legate alla sostenibilità nell'industria moda. Ha aperto il suo studio a Milano nel 2015.

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