La tecnologia va troppo veloce rispetto all’evoluzione?

La teoria del “disallineamento evolutivo” attribuisce diverse forme di disadattamento alla variazione di quantità e intensità degli stimoli ambientali nella modernità, ma presenta dei limiti

Un gruppo di persone sedute su una giostra in controluce al tramonto
Una giostra a East Rutherford, nel New Jersey (AP Photo/Julio Cortez)
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Nella biologia evolutiva, la disciplina che studia l’origine e i cambiamenti delle specie nel corso del tempo, l’idea che un tratto biologico precedentemente vantaggioso possa diventare disadattivo a causa di uno o più cambiamenti molto rapidi dell’ambiente è alla base della cosiddetta teoria del “disallineamento evolutivo”. È un’idea utile per descrivere alcuni aspetti di fenomeni relativi all’evoluzione di diverse specie animali, ma è utilizzata da alcuni anni anche in psicologia per descrivere una difficoltà umana nel sostenere la variazione repentina dell’intensità e della quantità degli stimoli nella modernità rispetto a un passato ancestrale.

Una delle ipotesi formulate dagli studiosi che sostengono quest’idea è che molti problemi di salute mentale, ma non solo, siano in qualche modo l’effetto di un mancato allineamento tra i tempi dell’evoluzione della nostra specie e quelli, più rapidi, della modernizzazione. Il modo in cui gli esseri umani sono fatti, in pratica, impedirebbe loro di sostenere il ritmo dei progressi tecnologici più recenti senza contraccolpi più o meno significativi ed estesi.

La considerazione alla base dell’ipotesi del disallineamento evolutivo è che i meccanismi psicologici umani siano forme di adattamento che si sono evolute per elaborare stimoli ambientali di un certo tipo e convertirli in comportamenti adattivi in grado di aumentare le probabilità di sopravvivenza e di riproduzione. I contesti moderni sono però notevolmente diversi dagli ambienti in cui quei meccanismi psicologici si erano evoluti, cioè ambienti in cui la sopravvivenza dipendeva dalla capacità di rilevare le minacce.

Un esempio abbastanza citato di disallineamento evolutivo in biologia sono le falene e altri animali notturni che si sono evoluti per orientarsi al buio, utilizzando la luna come sorgente luminosa di riferimento. L’invenzione umana della luce artificiale ha fatto sì che quegli animali venissero attratti dalla luce dei lampioni e di altre sorgenti, rendendo disadattivo in tempi molto brevi un comportamento originariamente adattivo.

Qualcosa di simile succede anche per gli esseri umani, ha scritto sul sito The Conversation Jose Yong, psicologo della Northumbria University a Newcastle, nel Regno Unito. Un esempio tipico è l’attrazione per i dolci, che ha un’origine evolutiva: deriva da una tendenza umana originaria a cercare cibi molto calorici in ambienti in cui le fonti di nutrimento erano scarse. I comportamenti stimolati dal desiderio di dolci, in origine adattivi, sono però diventati disadattivi in un contesto in cui l’industria alimentare produce alimenti pieni di zuccheri e grassi raffinati, e in cui il desiderio di dolci determina maggiori probabilità non più di sopravvivenza, ma di carie, obesità e diabete.

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Il disallineamento evolutivo è un argomento utilizzato anche per descrivere varie manifestazioni di ansia. Abbiamo ereditato i geni di una specie le cui probabilità di sopravvivenza dipendevano dalla capacità di combattere o fuggire da situazioni pericolose, scrisse nel 2019 sul Washington Post la psicologa Jelena Kecmanovic. La vita nel mondo sviluppato non espone le persone a quel tipo di pericoli, ma i meccanismi psicologici responsabili del rilevamento delle minacce sono comunque stimolati «come mai prima d’ora», da un ciclo di notizie sostanzialmente ininterrotto e dall’interconnessione digitale tra le persone.

Che si tratti di una reazione a una fotografia pubblicata da un amico o a un articolo su una sparatoria, «la nostra ansia ha costantemente la possibilità di divampare», scrisse Kecmanovic. E molte forme di solitudine e di disagio psicologico sono a volte descritte come l’effetto dell’incapacità di gestire relazioni in contesti virtuali illimitati o in grandi città popolate da centinaia di migliaia di sconosciuti. I nostri istinti – un tempo adattivi – si sono invece evoluti in ambienti in cui la specie era formata da piccole comunità nomadi composte da circa un centinaio di individui, tutti molto legati tra loro.

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Secondo alcuni studi citati da Yong su The Conversation, gli animali sociali che vengono tenuti in spazi affollati sperimentano stress da competizione e mostrano diversi problemi di salute, così come succede agli esseri umani che vivono in città affollate. Le società moderne sono inoltre contraddistinte da una maggiore disuguaglianza sociale rispetto ai gruppi di cacciatori-raccoglitori in cui si sono evoluti i meccanismi psicologici della specie.

Preoccuparsi dello status sociale dei propri simili deriva da un comportamento che in origine era adattivo perché motivava gli individui a colmare eventuali divari, ma può diventare disadattivo e generare ansia in un contesto in cui la disuguaglianza sociale è troppo ampia, ha scritto Yong. I social network sono costruiti in un modo che favorisce ulteriormente i confronti sociali, attraverso la metrica dei mi piace e dei follower, e i media danno visibilità continua «a persone come Elon Musk», il cui patrimonio netto per essere eguagliato richiederebbe a un americano medio di lavorare per tre milioni di anni al proprio salario medio annuo.

L’idea che l’ambiente attuale di un organismo sia in qualche modo incoerente rispetto alle condizioni ancestrali, reali o presunte, che esistevano durante la storia evolutiva di quell’organismo è in generale molto popolare. Nel caso degli esseri umani è declinata in modi diversi per descrivere discrepanze relative all’alimentazione, all’esercizio fisico e ad altri aspetti della quotidianità a cui sono legate varie forme di disadattamento e tendenze problematiche, tra cui le dipendenze da sostanze e il gioco d’azzardo patologico.

La competizione e l’ansia per lo status sociale nella modernità, considerate troppo intense rispetto a quanto i meccanismi psicologici siano in grado di gestire, sono state associate anche all’autolesionismo e alla depressione. E diversi studi hanno mostrato come le reazioni a questa discrepanza tra gli stimoli e la capacità di gestirli possano includere sentimenti di frustrazione, cinismo e aggressività.

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Per quanto suggestiva e utile a esplorare la possibile origine di alcune forme di disadattamento nella modernità, la teoria del disallineamento evolutivo pone tuttavia una serie di problemi relativi ai criteri e ai limiti della sua applicabilità. I suoi sostenitori tendono a definire scenari in cui i tratti biologici possono evolvere soltanto nel lungo o lunghissimo periodo, ma la definizione di lungo periodo può cambiare – anche molto – a seconda delle specie e dei casi presi in considerazione di volta in volta.

Alcuni animali notturni si sono adattati a molte forme di inquinamento sensoriale dovuto alla luce artificiale, per esempio, e hanno cambiato i loro comportamenti sia durante la loro vita individuale che nel corso di molte generazioni. I ragni nelle città hanno cominciato a costruire ragnatele sotto i lampioni per intrappolare più insetti, ma in quegli stessi ambienti alcune falene si sono evolute per essere meno attratte dalla luce.

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Come scritto dai ricercatori Andrés Segovia-Cuéllar e Lorenzo Del Savio in un articolo pubblicato nel 2021 sulla rivista Medicine, Health Care and Philosophy, l’applicabilità della teoria del disallineamento evolutivo a diversi ambiti della vita umana – dall’economia all’etica – è inoltre problematica perché i suoi sostenitori tendono a selezionare a posteriori determinati tratti evolutivi della specie e non altri. E spesso lo fanno per avvalorare presunte disposizioni umane che la contemporaneità dovrebbe in qualche modo assecondare e favorire in modo da evitare il possibile riemergere di atavismi (caratteristiche e condizioni esistenti in lontanissimi antenati).

Immaginare e realizzare soltanto condizioni che presumibilmente soddisfino i bisogni di comunità nomadi di cacciatori-raccoglitori significherebbe tuttavia porre dei vincoli molto forti su ogni azione politica a breve e medio termine. E significherebbe orientare le pratiche umane alla difesa e all’espansione di presunte caratteristiche ancestrali a scapito di altre, trascurando l’estrema flessibilità comportamentale e psicologica degli esseri umani.

Molto spesso i discorsi basati sul disallineamento evolutivo, secondo Segovia-Cuéllar e Del Savio, concettualizzano la relazione tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale in modo semplicistico. Contrappongono disposizioni psicologiche che cambiano lentamente, da una parte, a norme e istituzioni umane che cambiano rapidamente: un approccio in alcuni casi rischioso e fuorviante, perché definisce «il lato psicologico e quello istituzionale come se il primo non potesse essere influenzato dal secondo, né a livello evoluzionistico né a livello di sviluppo».

Le disposizioni umane non si sviluppano però nel vuoto, né in un ambiente che è soltanto biologico, ma in una nicchia sociale costituita da norme e istituzioni, scrivono Segovia-Cuéllar e Del Savio. La variabilità interculturale delle disposizioni umane è peraltro proprio una funzione della variabilità delle norme e delle istituzioni realmente esistenti, non il risultato evolutivo di presunte caratteristiche ancestrali differenti.

In generale molte applicazioni superficiali e sbrigative della teoria del disallineamento evolutivo, che possono generare equivoci e malintesi, derivano dalla tendenza a trascurare i modi in cui gli esseri umani trascendono i limiti posti dall’ambiente e la selezione naturale. Diversi approcci teorici alternativi e discipline filosofiche hanno suggerito come l’essere umano, a differenza di altre specie, definisca sé stesso e gli altri individui attraverso una relazione con l’ambiente circostante che non è mai data una volta per tutte, ma è anzi instabile e incerta.

Secondo il filosofo e sociologo tedesco Helmuth Plessner, considerato insieme a Max Scheler e Arnold Gehlen uno dei più importanti autori dell’antropologia filosofica del Novecento, la relazione tra l’essere umano e l’ambiente, proprio perché è instabile, richiede una ridefinizione continua attraverso vari strumenti che danno origine al mondo artificiale della cultura. Il bisogno di trovare un equilibrio in un ambiente rispetto al quale è sempre «decentrato», scrive Plessner nel libro I gradi dell’organico e l’uomo, porta l’essere umano a essere «artificiale per natura».