A proposito di Pina Bausch

«Mentre scrivo la guardo in "Café Müller". Sembra venuta dal mondo dei morti per mostrarmi la frattura tra chi avrei voluto essere e chi avrei potuto essere; tra la pulizia falsa e la sporcizia vera. A volte mi domando se riguardi solo me, quella frattura, o se altre donne la avvertano: se l’abbiano riempita di terra o distolgano lo sguardo per non esserne attirate. Mi domando che forma assuma, se c’è, in loro: per me ha gli occhi di Pina Bausch»

Pina Bausch al Tanzfest di Basilea, in Svizzera, 18 settembre 2003 (Epa/Peter Schnetz)
Pina Bausch al Tanzfest di Basilea, in Svizzera, 18 settembre 2003 (Epa/Peter Schnetz)

Pina Bausch entrò nella mia vita in una sera d’estate. Fu quando N. ci fece danzare a occhi chiusi, parlandoci di lei. Era il giugno del 2009: Pina sarebbe morta qualche giorno dopo, il 30 giugno 2009, quindici anni fa; mio padre se n’era andato da poco, diafano come lei. Quella sera, nel buio, strisciando sui muri, inciampando su altri corpi, per qualche minuto toccai la parte più intima di me: velluto nero. Ne ebbi paura: feci passare tra le ciglia una fessura di luce per non andare a sbattere.

Mentre scrivo guardo Pina Bausch in Café Müller, ebbra degli spazi, travolgere sedie, accogliere il dolore. Sembra venuta dal mondo dei morti per mostrarmi la frattura tra chi avrei voluto essere e chi avrei potuto essere; tra la pulizia falsa e la sporcizia vera. A volte mi domando se riguardi solo me, quella frattura, o se altre donne la avvertano: se l’abbiano riempita di terra o distolgano lo sguardo per non esserne attirate. Mi domando che forma assuma, se c’è, in loro: per me ha gli occhi di Pina Bausch.

Philippine Bausch nasce a Solingen, in Vestfalia, il 27 luglio 1940. La sua è un’infanzia di guerra, ma il ristorante che i genitori gestiscono è vivace, pieno di gente. Philippine ama le novità, e ognuno dei clienti ne porta una. Quando dovrebbe andare a dormire, si nasconde sotto i tavoli a guardare i piedi degli avventori chiusi nelle scarpe, i micro-movimenti delle dita nel cuoio, le gambe che si distendono, si accavallano, si intrecciano. Che cosa fa? Come racconterà anni dopo, ascolta la nostalgia. Può una bambina avere nostalgia?

Nel ristorante di Solingen, frequentato dalla gente del teatro, c’è un vecchio giradischi e Pina danza seguendo il ritmo dentro di sé. Qualcuno la nota e la accompagna a una lezione. Esercizio di flessibilità: la bambina porta i piedi ai lati del volto. L’insegnante la applaude, la invita a rimanere. Pina sente dentro di sé quella gioia trasparente che si prova quando si fa la cosa giusta.

A quattordici anni si è trasferita a Essen, dove frequenta la Folkwangschule. Kurt Jooss, il direttore del dipartimento di danza, la immerge in un mondo di arte totale. Non più solo ballet, ma anche popolare, moderna. A diciannove anni è a New York: ha vinto una borsa di studio alla Juilliard School of Music. Non sa neanche una parola d’inglese, ma presto arriva al Metropolitan Opera Ballet. Seguendo il filo sarebbe diventata un’étoile, chissà. Ma quel filo la riporta in Germania: mentre impacchetta le sue cose, nemmeno lei sa il perché.

Da bambina vestivo sempre di rosa. Nessuno me lo aveva imposto. La danza classica me l’ero scelta: a quattro anni, alla ringhiera del balcone, inventavo gli esercizi. Mi iscrissero a una scuola, quella che costava di meno: la palestra, con il pavimento di linoleum indaco al posto del parquet, si trovava a Genova sotto il ponte Morandi, quello che è crollato. Sono cresciuta con la danza, per lei ho sofferto: sangue sul raso, brandelli di pelle, ossa che trapelano dalla carne. Avrei fatto qualunque cosa: amavo quella forma pulita, il rigore o, meglio, l’idea che ne avevo. Cercavo di incastrarmi nelle sue regole. Era il volo, a drogarmi: l’essere staccata da terra per il tempo di un grand jété.

Quando Pina Bausch torna in Germania, la trova divisa in due. Essen è a Ovest: il lato fortunato della storia. Jooss la vuole con sé in una nuova compagnia e così lei diventa l’assistente “non ufficiale” del maestro. In sua assenza dirige le prove, gestisce gli spettacoli, ma vorrebbe danzare di più. Debutta come coreografa nel 1968, a ventotto anni, e l’anno dopo vince un premio al concorso di Colonia. Il tempo, per lei, inizia ad accelerare: viene invitata alla Wuppertaler Bühnen, uno dei più importanti teatri d’opera della Germania.

Pina Bausch nella sala prove del Wuppertal Tanztheater, 1988 (Bettina Flitner/laif/contrasto)

È il 1974: l’espulsione dall’Unione Sovietica di Aleksandr Solženicyn, la strage dell’Italicus, la passeggiata del funambolo Philippe Petit sul filo teso tra le Torri Gemelle, il referendum sul divorzio in Italia. Nel 1974, grazie a Pina Bausch, nasce il Wuppertal Tanztheater; e incidentalmente nasco anche io.

La danza classica mi ha restituito poco: qualche saggio, un piccolo assolo. Ho fatto come molte: evaporato il sogno, ho lasciato. Le unghie dei piedi si sfaldavano nei collant: non sarei mai stata Giselle. Finii gli studi; mi passarono davanti gli anni e le città. Quando tornai in quella in cui ero nata avevo 35 anni. Non danzavo più, ma continuavo a pensarci. Qualcuno mi parlò di N. e del suo modo di insegnare la danza contemporanea: fuori dai metodi, vicina all’Oriente. E a Pina Bausch, naturalmente. Con molti dubbi, decisi di provare.

Prima lezione. Soffitti alti di un palazzo antico, bianco di calce, nero di ardesia. La prima cosa che N. mi chiese fu di togliermi le calze. Dentro di me protestai, ma ubbidii. Con le dita fredde sentii il parquet, le minuscole valli, le venature del legno. Ogni centimetro di pelle mandava al mio cervello la sensazione del vuoto. Mi parve splendido e terribile.

– Leggi anche: Pina Bausch e il teatrodanza

Iphigenie auf Tauris, 1974; Orpheus und Eurydike, 1975; stesso anno del Sacre du Printemps, sulla musica di Igor Stravinskij. Terra in scena, il sudore si impasta nelle tutine color carne. Movimenti ossessivi, sentori di oscenità. Una ragazza, l’Eletta, danza con un abito rosso. Mestruazioni? Verginità? Stupro? Pina Bausch non spiega: «È tutto nella musica». Fino a quel momento ha seguito il solito metodo di creazione-esecuzione. Ma qualcosa, ogni tanto, durante le prove degli spettacoli, non è andata secondo i piani. Lei avrebbe potuto inveire, arrabbiarsi; invece ha iniziato a pensare che dietro l’errore ci fosse una strada: segni dell’universo. Avrebbe potuto ignorarli, invece ha proposto ai suoi danzatori un metodo nuovo, basato sulle domande.

«Riflettere su una frase molto semplice e dirla senza parole. Chi è capace di camminare sulle mani? Tenere una sigaretta».

Sono alcune delle domande-stimolo – contenute, assieme a molte delle informazioni di questo articolo, nel libro Il teatro di Pina Bausch di Leonetta Bentivoglio – che la coreografa rivolge ai suoi danzatori e che diventano la base dei suoi stück, pezzi. Pina sperimenta la nuova strada durante le prove di Blaubart (Barbablù) ispirato all’opera lirica di Béla Bartók. In pratica, in ogni sessione di prove, interroga a turno ciascun componente della compagnia, mentre gli altri ascoltano seduti. Al danzatore o alla danzatrice messi sotto torchio pone una domanda: si aspetta in risposta un movimento, un gesto o un’immagine; qualcosa di originale, insomma, che sia personale e universale al tempo stesso.

La risposta di molti danzatori è tiepida: non capiscono il perché delle ore seduti a parlare e a guardare, a frugare dentro sé stessi, nei ricordi e nei sogni… restando spesso immobili.

Il malcontento cresce: «Noi odiamo tutto questo», sbotta un giorno una di loro.

Pina attraversa il fallimento come una fenice il fuoco. Si allontana dal teatro, giura che non vi tornerà mai più, si rifugia nello studio di un amico. Qualcuno la segue; altri, timidamente, si uniranno al gruppo. Ma lei continua a seguire la sua intuizione: domande su domande che non possono avere risposta se non nel movimento. Assieme a chi le ha dato fiducia monta i pezzi di una coreografia che poi mostrerà agli scettici: visto? Funziona.

Pina Bausch al lavoro al Wuppertal Tanztheater, 1988 (Bettina Flitner/laif/contrasto)

Dopo Blaubart il “metodo Bausch” si svilupperà. Bausch porrà le sue domande all’intera compagnia radunata in una sala; chi desidererà rispondere si alzerà a mostrare la propria danza. La coreografa annoterà ciascuna risposta danzata su un quaderno: centinaia, migliaia di risposte formeranno un archivio di movimenti, dal quale poi sarà selezionato il materiale per lo spettacolo che ha in mente. Anche il danzatore dovrà annotare su un taccuino il movimento improvvisato, per non dimenticarlo mai. Alla fine, sarà Bausch a scegliere, affidare e a montare, in una sorta di collage, il materiale creato. Potrà anche succedere, nell’economia dello spettacolo, che il movimento inventato da uno si addica di più a un altro: che il gesto creato da un uomo venga affidato a una donna. Bausch plasmerà il materiale di cui dispone, lo intesserà con la musica e creerà le scene, senza lasciare nulla al caso. Non c’è improvvisazione, racconterà, nella versione definitiva di ogni stück: eppure, l’improvvisazione è il magma primordiale, nascosto in ciascun danzatore, da cui nasce ogni cosa. Su tutto aleggia lo sguardo di lei: attento, mai neutrale, che spoglia, legge, sceglie, trasforma, coglie gesti, “materiale” in ogni momento della giornata: anche durante le pause o al ristorante.

A volte anche N. ci faceva delle domande – diventare acqua, far spuntare un fiore. Attraverso di lei, Pina Bausch sembrava invitarmi a rompere un sigillo.

Troppa verità, per me: il corpo cercava ancora le sensazioni della danza classica, di far avverare nei movimenti l’antico sogno di Giselle.

Una sera N. ci insegnò una piccola sequenza a terra. Mi fissò, mentre la eseguivo in mezzo agli altri; fermò la musica. Nel silenzio azzurro «non so cosa siamo» sibilò «ma so cosa non siamo: delle finte ballerine». Fece ripartire la musica: i tagli delle parole sulla carne, mi fece sentire come se avessi rubato.

Nel 1985 Wim Wenders è a Venezia per il Festival del Cinema. La sua compagna di allora lo trascina alla Fenice ad assistere alla retrospettiva che la Biennale ha dedicato alla fondatrice del Wuppertal Tanztheater. «Mi cambiò la vita» racconterà nell’intervista che accompagna il film Pina, del 2011. Wenders si ritrova a «piangere come un bambino» davanti alle sedie rovesciate di Café Müller, a quello spettro con gli occhi chiusi che fluttua sulle arie di Henry Purcell: è «come se questa donna sconosciuta mi avesse comunicato su uomini e donne più di tutta la storia del cinema». Il giorno dopo incontra Pina Bausch nel piccolo caffè del teatro e le propone di fare un film. Lei si limita a guardarlo in silenzio, ad aspirare una boccata dalla sigaretta. Si ritroveranno l’anno dopo e sarà lei a chiedergli: «Non avevamo parlato di un film?».

Ne fantasticano per quasi vent’anni. Wenders aspettava la rivelazione del 3D, del terzo spazio, che arriverà nel 2008.

È tardi. Si studia l’attrezzatura, si allestisce il set, si stabilisce il calendario. Si gira un anno dopo. Le riprese durano pochi giorni. È il 30 giugno: Pina Bausch muore di cancro ai polmoni, la stessa malattia del respiro che avrebbe ucciso mio padre.

Volta la carta, ho quarant’anni, è il 2014. Penso all’assolo di Regina Advento nel film di Wenders – il volo di lei da una sedia che si ribalta sull’erba – mentre scivolo su una pietra bianca in mezzo a un sentiero a picco sul mare. Nessun volo; solo un rumore appena più grave di quello che fa un ramo spezzandosi, una frattura che si stacca dall’anima per incidere tre ossa del piede destro.

La prima paura è non poter più danzare; il primo sollievo, di non dover danzare. Salendo con le stampelle le scale del palazzo antico della mia scuola di danza, assisto alle lezioni di N. seduta in un angolo, fra onde di dolore: distratta, guardo i miei compagni. I loro gesti non mi appartengono più.

Quando apprende della morte di Pina Bausch, Wim Wenders decide di sospendere le riprese. Sono i danzatori del Wuppertal Tanztheater a fargli cambiare idea, a insistere dicendo: «I suoi occhi sono ancora qui». Tentando di gestire il vuoto dell’assenza, il regista cerca di “usare” lo stesso sguardo di lei – mai neutrale – per osservare la danza che nasce sul set, nei boschi attorno alla città, negli incroci, nelle discariche. Per farla sgorgare applica lo stesso metodo, ormai consolidato in decine di spettacoli. Pone domande: «Com’era Pina? Chi era per voi?».

Mi sono convinta che gli occhi di Pina, in qualche modo misterioso, abbiano guardato anche me. Mi hanno scrutata quando cercavo di nascondermi, mi hanno interrogata. Non credo di essere mai stata capace di sostenere il suo sguardo, come sempre ne sono scivolata via, ma credo di avere intuito un segreto che lei tentava di rivelarmi; fatto di ossa e carne, terra e velluto.

Pina Bausch alla prova stampa di Café Müller al Gran Teatre del Liceu di Barcellona, in Spagna, il 9 settembre 2008 (Epa/Toni Garriga)

Elena Nieddu
Elena Nieddu

Giornalista, vive a Genova. Ha lavorato per Avvenire, Repubblica e per Il Secolo XIX. Collabora con le testate Credere e Jesus dei Periodici San Paolo. Per Ensemble Edizioni ha pubblicato la raccolta di racconti Senza pelle.

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