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  • Domenica 30 giugno 2024

Perché non Kamala Harris?

Quali sono le ragioni contro la scelta apparentemente più naturale, se Joe Biden dovesse ritirare la sua candidatura

Kamala Harris
La vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris (Arvin Temkar/Atlanta Journal-Constitution via AP)
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In tutte le discussioni sulla possibilità – remota – che il presidente Democratico statunitense Joe Biden ritiri la sua candidatura dopo il disastroso dibattito contro il candidato Repubblicano Donald Trump, il nome che viene fatto con maggiore frequenza è quello di Kamala Harris. La vicepresidente sarebbe la scelta naturale per sostituire Joe Biden in caso di ritiro, e sarebbe comunque una delle candidate più forti dentro al Partito Democratico, soprattutto per il ruolo che ricopre. Al tempo stesso, tuttavia, circolano molti dubbi attorno a Harris, che nel suo attuale ruolo ha deluso molte aspettative e nei sondaggi risulta poco popolare, più o meno quanto lo stesso Biden.

Anzitutto bisogna considerare il fatto che tutta la discussione attorno a una possibile sostituzione di Biden è al momento ipotetica e improbabile: Biden, che ha vinto le primarie del Partito Democratico, può essere sostituito soltanto in caso di ritiro volontario dalla candidatura (o di morte), e al momento né lui né il suo staff hanno espresso la minima intenzione di farlo. Tuttavia è probabile che quanto meno nelle prossime settimane si continuerà a parlare di questa possibilità, e che molte attenzioni saranno indirizzate proprio a Harris.

Nei giorni complicati dopo il dibattito di Biden, Harris ha fatto alcune apparizioni pubbliche piuttosto solide, che hanno elevato la sua figura in un momento di crisi per il Partito Democratico. Subito dopo il dibattito ha fatto un’intervista alla CNN con il noto giornalista Anderson Cooper, in cui ha saputo rispondere con calma alle domande pressanti del giornalista e veicolare il messaggio politico del partito molto meglio di quanto fosse riuscito a fare Biden poco prima sul palco.

Kamala Harris e Joe Biden a maggio a Philadelphia

Kamala Harris e Joe Biden a maggio a Philadelphia (AP Photo/Evan Vucci)

Il giorno dopo ha tenuto un comizio a sostegno di Biden in Nevada, uno degli stati in bilico in queste elezioni, e ancora una volta ha reso evidente la differenza d’età tra presidente e vicepresidente (Biden ha 81 anni, Harris 59). Le prestazioni non sono state particolarmente brillanti o memorabili, ma appunto, hanno messo in risalto il contrasto tra la prontezza di Harris e la fragilità e la confusione di Biden. Ha scritto il New York Times:

[Harris] ha parlato chiaramente dei successi di Biden, in un modo che il presidente non era riuscito a fare la sera prima. Ha tentato di rendere evidente il contrasto tra Biden e il suo avversario, l’ex presidente Donald Trump, le cui bugie e menzogne erano evidenti durante il dibattito. Ma nella mente dei Democratici c’era un altro contrasto evidente: quello tra lei e il suo capo.

Harris non è certo l’unica politica del Partito Democratico con buona retorica e notorietà nazionale: se si parla di lei come la scelta naturale per la successione a Joe Biden è evidentemente per il ruolo che ricopre. In quanto vicepresidente, Harris avrebbe un evidente vantaggio all’interno del partito, oltre che probabilmente maggiore legittimità nel pretendere l’incarico.

Tuttavia la candidatura della vicepresidente non sarebbe automatica: in caso di ritiro di Biden, la scelta del candidato o della candidata alla presidenza toccherebbe ai delegati nominati alla convention Democratica in programma tra il 19 e il 22 agosto a Chicago. A quel punto vari candidati potrebbero farsi avanti per ottenere la nomination, ed è quasi scontato che anche Harris lo farebbe. La vicepresidenza darebbe a Harris un vantaggio determinante perché, come ha scritto il Washington Post, in quanto vicepresidente Harris è già la persona che è stata «scelta dal Partito per succedere a Joe Biden».

Una convention «aperta», come vengono definite le convention in cui non c’è un candidato già deciso, rischierebbe poi di creare grosse e pubbliche divisioni all’interno del Partito Democratico, e il ruolo di Harris le darebbe maggiore possibilità di presentarsi come una figura unitaria. Inoltre, se il partito decidesse di snobbare Harris, una donna nera, in favore di un altro candidato, rischierebbe di generare insoddisfazione tra alcune delle fasce più importanti dell’elettorato Democratico. Di fatto, affinché un altro candidato possa ottenere la nomination Democratica, è necessario non solo che Joe Biden si ritiri, ma che lo faccia anche Harris.

Kamala Harris e Joe Biden a marzo

Kamala Harris e Joe Biden a marzo (AP Photo/Matt Kelley)

Questo ha fatto sì che alcuni opinionisti soprattutto progressisti abbiano cominciato a indicare Harris come la scelta migliore per sostituire Joe Biden. Lydia Polgreen, ex direttrice dell’Huffington Post, ha scritto sul New York Times un editoriale intitolato: “Kamala Harris potrebbe vincere queste elezioni. Lasciateglielo fare”. In un editoriale su Bloomberg si legge che Harris è stata la vera vincitrice del dibattito tra Biden e Trump, e il Washington Post ha riassunto il ritrovato interesse nei confronti di Harris da parte dell’elettorato Democratico con un titolo un po’ ironico: “E quindi, ehm, come andrebbe Kamala Harris contro Trump?”.

Questo è il primo problema di Kamala Harris, nell’ipotesi che dovesse succedere a Biden come candidata: i suoi sondaggi non sono tanto migliori di quelli del presidente, anzi. I pochi sondaggi che hanno provato a valutare un’eventuale elezione di Harris contro Trump la danno indietro di 5 o 6 punti percentuali. È un po’ peggio del risultato di Biden, che negli stessi sondaggi è indietro di 4 punti. Sono distanze minime, di fatto coperte dal margine d’errore dei sondaggi, ma il fatto che al momento Harris non farebbe tanto meglio di Biden è confermato anche dagli indici di popolarità, secondo cui il gradimento di Harris e di Biden presso l’elettorato americano è praticamente lo stesso: circa il 40 per cento.

La scarsa popolarità di Harris è dovuta in parte alla scarsa popolarità dell’amministrazione presidenziale di cui fa parte, e in parte alle sue difficoltà nel ruolo di vicepresidente. Soprattutto nei primi anni di mandato, Biden ha affidato a Harris alcuni incarichi complicati, ingrati e impopolari (come è normale per i vicepresidenti): per esempio la gestione della crisi migratoria al confine, un tema su cui Trump e i Repubblicani sono particolarmente sensibili e agguerriti. Tra l’altro nel suo primo anno da vicepresidente Harris ha anche dato alcune interviste deboli e incerte, che hanno contribuito a creare un’immagine di vicepresidente inadeguata.

Più di recente le cose sono andate un po’ meglio, soprattutto perché Harris ha cominciato a occuparsi di questioni più care all’elettorato Democratico: per esempio è diventata la principale portavoce dell’amministrazione nella battaglia in difesa del diritto all’aborto. I suoi consensi, però, non sono migliorati più di tanto.