Ci metteremo mai d’accordo sui messaggi vocali?

C'è chi li detesta e non vuole riceverli e chi li ama, chi si scusa quando ne manda uno e chi ne abusa platealmente: e un'etichetta condivisa per ora non esiste

(Pixabay)
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La possibilità di registrare e inviare messaggi vocali quando si chatta con qualcuno è stata introdotta nelle app di messaggistica più importanti da più di un decennio. WeChat, che oggi è un’app tuttofare utilizzatissima soprattutto in Cina, inaugurò la funzionalità nel 2011; su WhatsApp arrivò nel 2013, su iMessage di Apple nel 2014. In Europa i vocali sono da tempo molto comuni tra chi usa WhatsApp, mentre negli Stati Uniti li usano massicciamente soltanto da due o tre anni. Secondo Meta, l’azienda a cui WhatsApp appartiene, nel 2022 se ne inviavano circa sette miliardi al giorno. Da Frank Ocean ad Adele, da Taylor Swift a Fred Again, negli ultimi anni vari musicisti hanno campionato messaggi vocali che avevano inviato o ricevuto per includerli nelle proprie canzoni, e su TikTok gli sketch comici che ne parlano vanno molto forte. Eppure, nonostante la loro ubiquità, rimangono una forma di comunicazione piuttosto divisiva.

C’è chi li trova maleducati o addirittura li odia profondamente, al punto da cancellarli senza ascoltarli quando li riceve o segnalare nel proprio stato di WhatsApp che non desidera assolutamente riceverne uno. Altri li apprezzano perché più comodi e più intimi di un messaggio di testo, ma meno impegnativi di una telefonata. C’è chi ne abusa con estrema disinvoltura, arrivando a parlare ininterrottamente anche per un quarto d’ora: qualche anno fa una delle canzoni più famose del gruppo italiano Thegiornalisti, “Felicità puttana”, includeva la frase «ti mando un vocale di dieci minuti soltanto per dirti quanto sono felice», che da allora è entrata nel vocabolario comune di molte persone. Altri ancora si scusano quando li mandano, ma continuano comunque a farlo. La soglia di tolleranza, insomma, varia molto, così come le ragioni per cui qualcuno dovrebbe preferirli a un messaggio scritto o a una telefonata.

Sui media, sia anglosassoni che italiani, prevalgono soprattutto i commenti scocciati. A febbraio il Guardian ha pubblicato un articolo d’opinione in cui i vocali venivano definiti come «un’espressione del fatto che i livelli di narcisismo stanno aumentando». L’Atlantic ne ha intitolato un altro “Magari non mandare quel vocale”: al suo interno, il giornalista Jacob Sweet scrive che «sentendosi al telefono, le persone possono interrompersi, domandare chiarimenti, e in generale avere una conversazione l’uno con l’altro. Le persone che ricevono note vocali, invece, possono soltanto restare lì ad ascoltare».

In un articolo sullo Spectator intitolato “La tirannia delle note vocali”, l’autrice Flora Watkins li descrive come «un crimine d’odio» e scrive che «i vocali sono rapidi e comodi, sì, ma per il mittente. Per il destinatario sono invece una cosa orribile, che richiede dei negoziati. Certi sono più dei podcast inediti che una nota veloce». E già nel 2017 il giornalista italiano Andrea Coccia scriveva su Linkiesta che «i messaggi vocali sono ridicoli, spesso imbarazzanti per chi li riceve, ma sono anche l’ultimo atto della vittoria dell’ego sulla socialità. Sì, perché non esiste messaggio più autoreferenziale di un messaggio vocale. Sono i selfie della comunicazione, inviati da un mittente che non ha tempo da perdere per mandarvi un messaggio scritto e a cui interessa talmente tanto la vostra opinione che non si prende nemmeno la briga di chiamarvi».

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La sensazione che le persone mandino vocali soltanto per comodità propria, senza pensare invece a quella del destinatario – che potrebbe trovarsi in una situazione in cui non può semplicemente interrompere le proprie attività, indossare gli auricolari e ascoltare vari minuti di messaggio – è piuttosto diffusa. «Sento i vocali come una forma di maleducazione: chi li manda non ha tempo per scrivere, ma si aspetta che chi li riceve abbia tempo e possibilità di ascoltarli», dice Rufo, chirurgo trentasettenne. «Li tollero soltanto se raccolgono tante informazioni non urgenti e vengono preceduti da una piccola didascalia che lo segnala, tipo “ti mando un vocale per raccontarti cos’è successo ieri sera”. Se mi arrivano da contatti lavorativi li cancello senza ascoltarli e informo della cosa chi ci ha provato, così sa di dover scrivere».

Livia, che ha trent’anni e vive a Roma, è piuttosto d’accordo: «Mi pare che denoti una mancanza d’interesse nell’investire il tuo tempo per rispondermi, e quindi a me non interessa sentire la tua voce. Il peggio è quando non ci conosciamo, non ho neanche il tuo numero, e tu esordisci con un vocale». Anche l’idea che mandare un vocale a qualcuno che si conosce a malapena sia maleducato è molto diffusa.

La diffidenza di molte persone verso i vocali è talmente nota che molti considerano buona educazione scusarsi prima di mandarne uno, oppure spiegare come mai non si possa semplicemente inviare un messaggio di testo. C’è per esempio chi manda note vocali mentre guida, per mandare un veloce aggiornamento a qualcuno senza dover distogliere lo sguardo dalla strada (anche se l’uso del cellulare al volante è vietato pure in questo caso). Altri li mandano soprattutto quando sono in movimento – sui mezzi pubblici o a piedi – e non possono, o vogliono, fermarsi per digitare un messaggio. Molti, però, lo fanno semplicemente per comodità propria, perché non amano scrivere lunghi messaggi o telefonare ma vogliono comunque aggiornare il destinatario su qualcosa che potrebbe interessargli.

Un’altra questione è quella della lunghezza tollerata, dato che piattaforme come WhatsApp non hanno un limite massimo di minuti oltre il quale la nota vocale viene interrotta. «Io li tollero molto lunghi solo se servono per raccontare qualche tipo di gossip», dice Carlotta, studentessa di 27 anni. «Non vanno bene invece se comunicano informazioni pratiche, perché in quel caso le voglio avere per iscritto». Matteo, di 26 anni, racconta invece che si scusa soltanto se un suo messaggio supera i quattro minuti: «È come se sentissi di aver rubato del tempo a qualcuno e mi viene naturale. Sotto i quattro minuti, invece, in genere non mi faccio troppi problemi».

Soprattutto tra le generazioni più giovani, meno abituate a telefonare, i messaggi vocali sono stati adottati in larga parte anche perché permettono di comunicare un’intimità e una sincerità che spesso manca nei messaggi scritti. Si potrebbe preferire un vocale, per esempio, se a causa di un imprevisto si deve spostare un appuntamento con un amico: mandare una nota vocale, in questo caso, permette di spiegare meglio le circostanze e scusarsi in modo più convincente. Da quando WhatsApp ha introdotto la possibilità di ascoltarli a velocità aumentata, a 1,5x o 2x, molte persone poi danno per scontato che se il ricevente avesse poco tempo la userà.

«Più in generale, i memo vocali sono popolari perché consentono alle persone di condividere la ricchezza che deriva dalla comunicazione vocale, come il tono, l’umore e l’umorismo, senza la pressione di disturbare qualcuno con una telefonata», spiega Shirin Ghaffary su Vox. «Il punto è trovare un compromesso tra messaggi e telefonate. Le note audio non rimpiazzeranno mai l’efficienza dei primi o la capacità di creare una connessione in tempo reale delle seconde. Stanno a metà tra questi due mezzi di comunicazione».

Arianna, che ha 30 anni e lavora a Milano, dice di amarli particolarmente perché le permettono di sentire la voce delle persone care che vogliono raccontarle qualcosa, dato che «è difficile incastrarsi e a volte non ci si vede per settimane». «La voce avvicina molto di più di un messaggio di testo: per me è una questione emotiva, infatti spesso mi ritrovo a scrivere “che bello sentire la tua voce!”, soprattutto se non vedo la persona da un po’», continua. Dice poi che le piace il fatto di poter ascoltare le note audio mentre fa qualcos’altro, come se la persona cara che le sta raccontando un pettegolezzo o un fatto che le è capitato le facesse compagnia mentre fa la spesa o cucina. «È più coinvolgente di un messaggio, perché si sentono tutte le inflessioni di tono», aggiunge.

La comodità di poter ricevere l’aggiornamento di una persona cara e ascoltarlo in un secondo momento non piace soltanto alle persone che hanno un calendario fitto d’impegni. È molto utile, per esempio, anche a chi vuole tenersi in contatto con qualcuno che vive all’estero, in un fuso orario che rende difficile organizzare una telefonata, oppure per chi lavora in orari insoliti, come succede a chi fa i turni di notte. Per motivi diversi, poi, sono comodi per le persone con vari tipi di disabilità che rendono difficile digitare lunghi messaggi o leggere testi, e per le persone che parlano lingue con alfabeti complessi, come il khmer.

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Tenere a mente che ci sono sensibilità molto diverse sul tema, comunque, è utile per capire come rapportarsi ed essere quanto più rispettosi possibile delle preferenze altrui. Paolo, ricercatore trentunenne, dice che il suo approccio ai vocali cambia moltissimo in base all’interlocutore: «Se è una persona che conosco bene e che ama gli audio non mi scuso praticamente mai; se è qualcuno che conosco bene e che non ama particolarmente gli audio cerco di essere sintetico e mi scuso se vado oltre i tre minuti. Se è qualcuno che conosco poco mi scuso di default e chiedo espressamente se si trova bene con gli audio o se preferisce i messaggi scritti», scrive. «In generale, sono un gran sostenitore dei messaggi vocali, soprattutto con amiche e amici che non vivono nella mia città, perché fanno sì che sia chi parla sia chi ascolta dedichino del tempo di qualità all’altro, ed evita fraintendimenti che col messaggio scritto possono essere più probabili».

A suo avviso, poi, è buona norma rendere chiaro che non è necessario ascoltarli subito, e anzi specificare in un messaggio scritto il grado di urgenza della comunicazione, «così da evitare di instillare ansia nell’altra persona».