Il timido ritorno di un cocktail con una pessima fama

Il “Quattro bianchi” o “Invisibile” era servito in tutti i club e le discoteche d'Italia: oggi qualche bartender sta provando a riproporlo in nuove versioni, mentre altri continuano a disprezzarlo

(Unsplash)
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Tra gli anni Novanta e la prima metà degli anni Duemila in Italia la cultura del bere non era sviluppata come oggi: i baristi con una formazione professionale e capaci di padroneggiare diversi stili di miscelazione erano pochi, così come i locali specializzati in cui ordinare cocktail realizzati secondo le linee guida dell’IBA (International Bartenders Association).

In quel contesto ancora poco florido, il consumo di massa dei cocktail era legato principalmente al mondo del clubbing e delle discoteche. In realtà, nella maggior parte dei casi quelli che venivano proposti non erano neppure cocktail in senso stretto: non erano cioè il risultato di una miscelazione proporzionata di ingredienti e aromi, ma beveroni caratterizzati da una gradazione alcolica molto alta, da un sapore spesso tremendo e da un prezzo molto contenuto.

Fu in quel periodo che furono sdoganati drink molto avversati dai bartender e non codificati dall’IBA, come il B-52 (nato negli Stati Uniti e composto principalmente da kahlúa, un liquore messicano, crema di whisky e Grand Marnier), l’Angelo azzurro (nato in Italia e composto da una miscela di gin, cointreau e blue curaçao) e il “Quattro bianchi” o “Invisibile”. Veniva chiamato così per via del colore trasparente dei quattro distillati utilizzati per prepararlo (la vodka, il gin, il rum e la tequila), e ai tempi ebbe una diffusione enorme nelle discoteche.

Il suo successo fu dovuto a vari fattori, come la facile reperibilità degli ingredienti e il fatto che fosse un drink non professionale: era consumato da clienti molto poco esigenti e poteva essere preparato velocemente da chiunque, anche da baristi privi di formazione. Tra i clienti, l’attrattiva era per molti la forte gradazione alcolica, che permetteva a chi lo desiderava di inebriarsi spendendo poco.

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Negli ultimi anni alcuni bartender di fama internazionale hanno provato a dare al Quattro bianchi un maggiore equilibrio di miscelazione e gusto. L’esempio più famoso è il Quattro Barbie e Fragolino, una rivisitazione del Quattro bianchi realizzata da Marianna Di Leo. Si tratta ovviamente di un cocktail che ha ben poco da spartire con l’originale: la base principale della miscelazione è la tequila, a cui vengono aggiunti gin, Grand Marnier, mezcal e un misto di spezie aromatizzato alla fragola.

Di Leo pensò di creare una rivisitazione del Quattro bianchi nel 2021, mentre lavorava come bartender in un locale di Pagani, in provincia di Salerno, che riprendeva l’atmosfera e l’estetica tipiche degli anni Cinquanta. «Per l’occasione preparammo una serie di cocktail che potessero omaggiare quel decennio», dice. Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta uno dei simboli della cultura pop più diffusi erano le Barbie, e così «ho deciso di omaggiare tre Barbie realizzate per la serie Inspiring Women, che omaggiava una serie di donne che si sono distinte per il loro impegno professionale e civile».

Di Leo racconta che, in quel modo, tentò di dare «rispettabilità a un cocktail radicato nell’immaginario collettivo e che conosce chiunque, ma che chi fa il mio lavoro disprezza e fatica addirittura a chiamare cocktail». Ogni ingrediente «omaggia una delle Barbie a cui mi sono ispirata: la tequila Espolòn e il Mezcal Montelobos per la pittrice messicana Frida Kahlo, il gin per la modella britannica Twiggy, il Grand Marnier per la calciatrice francese Amandine Henry e il pisto per la chef  Marziale».

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Secondo Salvatore Romano, barman e imprenditore nel settore delle bevande, il successo che il Quattro bianchi ebbe tra gli anni Novanta e Duemila era l’espressione di un paese in cui lo studio della cosiddetta mixology  (ovvero l’insieme delle tecniche per la preparazione dei cocktail) era ancora un interesse di nicchia. «L’Italia ha sempre avuto una grande importanza nel bartending mondiale, ma a quei tempi i locali che preparavano i cocktail in un certo modo non erano tantissimi», racconta. Romano paragona il Quattro bianchi a una sorta di «versione depravata» del Long Island Iced Tea, un famoso cocktail statunitense chiamato così per via del suo colore, che ricorda quello del tè freddo. La ricetta del Long Island Iced Tea – che pur essendo riconosciuto dall’IBA negli Stati Uniti ha una fama simile a quella del Quattro bianchi in Italia – è infatti più o meno la stessa: è preparato con vodka, gin, rum, tequila, a cui vengono aggiunti succo di limone, cola e sciroppo di zucchero.

Tuttavia, continua Romano, «mentre il Long Island Iced Tea è un cocktail che, al netto della cattiva fama, segue delle regole di miscelazione precise e ricerca un equilibrio nel gusto» dato dal succo di limone e dallo zucchero, «il Quattro bianchi è un cocktail che non ha nulla a che fare con la cultura del bere: era pensato unicamente per ubriacarsi velocemente e spendendo poco».

Oggi il Quattro bianchi è considerato un abominio da «qualsiasi bartender che abbia un minimo di rispetto per il proprio lavoro», continua Romano. Concorda anche Domenico Carella, fondatore del cocktail bar milanese Carico. «Oggi è detestato da tutti i professionisti del settore, ma all’epoca era perfettamente coerente con lo spirito del tempo: non era un drink pensato per la convivialità ma, detto brutalmente, per sfasciarsi nel minor tempo possibile».

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Carella ricorda come la mixology e i metodi tradizionali di preparazione dei cocktail vennero sdoganati in tutta Italia soltanto di recente, agli inizi degli anni Dieci del Duemila. «In quel periodo alcuni locali, come il Jerry Thomas a Roma e alcuni bar di Milano centrati sui cocktail molecolari cominciarono a studiare e diffondere le tecniche di alta miscelazione, che ai tempi erano circoscritte a luoghi molto specifici, come i bar di alcuni hotel di lusso». Da quel momento, racconta Carella, «tutti i bartender hanno iniziato a privilegiare le preparazioni più sofisticate e a demonizzare quelle più semplici, come per l’appunto il Quattro bianchi».

Carella ricorda anche che, ai tempi, l’interpretazione del Quattro bianchi variava da regione a regione. «C’era chi aggiungeva alla miscela il cointreau e chi delle note fruttate, come la fragola e il passion fruit. Il tutto ovviamente in modo totalmente improvvisato, versando i distillati in un bicchiere e mescolandoli un po’ a casaccio».

Romano dice che il Quattro bianchi sta tornando di moda anche perché, negli ultimi anni, nel mondo della mixology ha preso piede la tendenza a rielaborare drink tipici degli anni Novanta. Questo «revival» è caratterizzato soprattutto da un ritorno di miscele a base di rum, il distillato più utilizzato in quel decennio. «Negli anni Novanta il rum era una delle basi più diffuse, un po’ come succede oggi col gin. Realizzare cocktail che richiamano i classici di quel periodo, come ha fatto ottimamente Di Leo con la sua rivisitazione del Quattro bianchi, è diventata la norma».