Si può pensare senza linguaggio?

Uno studio recente suggerisce che non sia un prerequisito indispensabile, ma altri approcci spiegano quanto sia influente sulla cognizione umana

Charlie Chaplin si tiene una mano sulla bocca in una scena in cui ha il singhiozzo dopo aver ingoiato un fischietto
Charlie Chaplin in una scena del film del 1931 Luci della città
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Se il linguaggio sia uno strumento di comunicazione o qualcosa di più è una domanda centrale nella tradizione filosofica occidentale, ma che da circa due decenni alimenta in particolare un dibattito vivace nel campo delle scienze cognitive, della linguistica e della filosofia della mente. Da un lato, in un senso facile da cogliere intuitivamente, il linguaggio verbale è considerato il mezzo attraverso cui comunichiamo pensieri e sentimenti ad altre persone. Dall’altro è considerato il mezzo attraverso cui formiamo i pensieri stessi durante lo sviluppo infantile, cioè prima di avere le parole per farlo (“infanzia” deriva dal latino infans, che vuol dire appunto “che non può parlare”).

L’idea che il linguaggio determini la formazione dei pensieri contiene però, secondo alcuni studiosi, un’implicazione problematica: che non esista un pensiero pre-linguistico. Che non si possa pensare senza linguaggio, insomma. Negli ultimi decenni, tramite nuovi approcci computazionali e tecniche di diagnostica per immagini, diverse ricerche scientifiche hanno cercato di smentire questa affermazione definendo una distinzione tra il pensiero e il linguaggio in termini neurobiologici. Hanno mostrato come le aree del cervello associate a varie forme di pensiero complesso funzionino in modo relativamente autonomo e indipendente da quelle più associate al linguaggio.

Di alcune di queste ricerche si è occupato uno studio di revisione pubblicato il 19 giugno sulla rivista Nature da un gruppo di neuroscienziati del Massachusetts Institute of Technology (MIT) e della University of California Berkeley. La tesi sostenuta nello studio è che se intendiamo per pensiero le nostre conoscenze del mondo, inclusa quella delle proprietà fisiche degli oggetti, e il fare inferenze e previsioni complesse sulla base di queste conoscenze, allora il linguaggio verbale non è una condizione necessaria per il pensiero. E non è nemmeno sufficiente, considerando che l’abilità linguistica in sé non è prova della presenza di un pensiero.

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Un approccio neurobiologico classico alla distinzione tra pensiero e linguaggio si basa sullo studio delle persone con lesioni cerebrali. Alcune di loro, a seguito di un ictus o di altri eventi, possono soffrire di afasia: una condizione che si presenta in varie forme ma che in generale limita le possibilità di parlare (la radice verbale di “afasia” è la stessa di “infanzia”). Se l’abilità linguistica è essenziale per determinate forme di pensiero, scrive il gruppo, dovremmo aspettarci che a determinati disturbi linguistici corrispondano determinate difficoltà in particolari aspetti del pensiero e del ragionamento. Ma le prove fornite dagli studi su persone con lesioni cerebrali non dimostrano questa corrispondenza.

In molti casi i pazienti con gravi disturbi linguistici e con abilità sia lessicali che sintattiche compromesse mostrano capacità cognitive intatte. Sono in grado di risolvere problemi matematici, programmare attività, interagire nel mondo con finalità pratiche e giocare a scacchi, per esempio. Quello che non riescono a fare è semplicemente associare i pensieri a espressioni linguistiche: fatto che ha inevitabili conseguenze sulla loro capacità sia di comunicare attraverso il linguaggio che di comprendere quello delle altre persone. Ci sono anche danni cerebrali che interessano sia capacità linguistiche che cognitive, aggiunge il gruppo di ricerca, ma sono casi comunque spiegabili per via della vicinanza tra le aree del cervello associate al sistema linguistico e quelle associate ai sistemi cognitivi di alto livello.

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Diversi studi recenti sono stati condotti dalle due neuroscienziate del MIT più citate e coinvolte nella ricerca sui rapporti tra linguaggio e pensiero: Evelina Fedorenko, una delle autrici dello studio di revisione, e Anna Ivanova. Le loro ricerche, basate su immagini dettagliate ottenute tramite risonanze magnetiche funzionali (fMRI), mostrano quali circuiti cerebrali siano più coinvolti nei compiti linguistici. Alcune aree del cervello, per esempio, si attivano se i partecipanti volontari leggono frasi di senso compiuto, ma non se leggono parole senza senso. Durante compiti di altro tipo, come per esempio cercare di risolvere un puzzle, alcune aree sono molto attive ma altre normalmente associate ai compiti linguistici non lo sono per niente.

Secondo il gruppo di ricerca, anche se l’uso delle parole, dei simboli e delle strutture sintattiche può semplificare molti compiti cognitivi, nel complesso gli studi suggeriscono che pensiero e ragionamento esistano anche in assenza del linguaggio, e che la principale funzione del linguaggio sia effettivamente comunicare. Ne sarebbe prova indiretta anche il fatto che le lingue si sono evolute secondo criteri di ottimizzazione dell’efficienza e della chiarezza nel trasferimento delle informazioni. Uno studio del 2011 su dieci lingue del mondo, incluso l’italiano, mostra che le parole più utilizzate tendono a essere quelle più brevi, cosa che permette di accelerare il flusso di informazioni e rende le lingue più facili da imparare.

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Distinguere la facoltà di linguaggio da quella del pensiero potrebbe inoltre servire a comprendere meglio e a spiegare una differenza sostanziale tra gli esseri umani e i sistemi di intelligenza artificiale come ChatGPT, che funzionano benissimo per alcuni compiti ma non per altri. Come detto all’Atlantic da Kyle Mahowald, un linguista della University of Texas a Austin, i modelli linguistici sono molto efficaci nel produrre testi grammaticalmente scorrevoli. Ma non è detto «che qualcosa in grado di produrre un linguaggio grammaticalmente scorrevole sia in grado di fare calcoli o ragionamenti logici, o di pensare o di muoversi in contesti sociali».

In conclusione, secondo Fedorenko e gli altri autori dello studio di revisione pubblicato su Nature, il linguaggio «riflette la complessità caratteristica della cognizione umana» più che esserne l’origine. L’idea che non sia indispensabile per il pensiero e il ragionamento, scrive il gruppo, non implica però che non abbia ripercussioni fondamentali per l’evoluzione e il successo della specie, avendo reso possibile «la trasmissione intergenerazionale della conoscenza acquisita». Anzi è probabile che gli effetti coevolutivi del linguaggio sul pensiero e del pensiero sul linguaggio siano proprio ciò che ha permesso agli esseri umani di affinare le capacità sociali e creare civiltà.

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In generale, nella tradizione del pensiero filosofico occidentale, ma anche nella linguistica e nella psicologia dello sviluppo, l’idea che il linguaggio sia uno strumento di comunicazione è da sempre considerata riduttiva e ambigua. Molte riflessioni di studiosi di epoche e ambiti diversi si sono concentrate sull’influenza del linguaggio sul pensiero: non solo in termini di evoluzione della specie (filogenesi) ma proprio di sviluppo individuale (ontogenesi). È un aspetto perlopiù trascurato nello studio uscito su Nature, che analizza tra le altre cose ricerche condotte su persone prive di parola ma non di linguaggio, se per linguaggio si intende una facoltà da loro comunque precedentemente acquisita nel corso della vita.

Secondo un orientamento “innatista” emerso alla fine degli anni Cinquanta a partire dalle ricerche del linguista statunitense Noam Chomsky, ma messo in discussione in anni più recenti, il linguaggio non sarebbe nemmeno una facoltà acquisita. Per Chomsky è una sorta di dotazione genetica, un insieme di princìpi e regole chiamato «grammatica universale» e comune a tutte le lingue naturali, che permette all’infante di acquisire lingue determinate attraverso l’esposizione quotidiana agli stimoli forniti da altri parlanti. Gli stimoli sono necessari, ma in mancanza di strutture linguistiche preesistenti non sarebbero sufficienti per apprendere le lingue.

Indipendentemente dalla questione dell’innatismo, che è dibattuta, l’influenza dell’ambiente e del contesto sociale e culturale è alla base di altre importanti riflessioni del Novecento sui rapporti tra linguaggio e pensiero considerati da prospettive non schiacciate su teorie fisiologiche. Per Lev Vygotskij, influente psicologo russo degli anni Venti studiato in Europa soprattutto a partire dagli anni Ottanta, l’individuo sviluppa le proprie capacità cognitive in base alla realtà socio-culturale in cui è immerso. Che è una realtà fatta di processi in cui individui di età e competenze diverse interagiscono attraverso il linguaggio. Del linguaggio come pratica culturale e categoria attraverso cui gli individui interpretano il mondo e sviluppano modelli di condotta sociale si occupa anche l’antropologia del linguaggio.

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L’idea che esistano pensieri pre-linguistici e che la funzione preminente del linguaggio sia trasmettere questi pensieri è inoltre oggetto di una nota critica del filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein. Nelle Ricerche filosofiche, pubblicato postumo nel 1953, Wittgenstein argomentò che il bambino non impara a usare le parole sulla base di definizioni ostensive, accompagnate cioè dalla presentazione dell’oggetto che si vuol definire. Ascoltando la parola “mela” davanti a una mela, per esempio, il bambino non avrebbe elementi per concludere che quella parola è riferita al frutto e non a una qualsiasi altra proprietà dell’oggetto (il colore o la forma, per esempio).

Pensare che sia possibile insegnare a parlare a un bambino tramite definizioni ostensive presuppone che ogni singola parola abbia un proprio uso. Ma secondo Wittgenstein questo modello teorico di apprendimento delle lingue è fallace, perché l’uso di una parola è collegato all’uso di molte altre. Da questa prospettiva i pensieri non possono precedere le lingue né le culture specifiche perché lingua e cultura sono necessarie a definirli.

Se un bambino cade, si fa male e grida, scrive Wittgenstein, e le persone intorno a lui gli insegnano esclamazioni e frasi, il bambino non sceglie tra tutte le sensazioni ed emozioni che prova – dolore, vergogna, imbarazzo, paura – quella che si adatta meglio alla parola “dolore”. Il bambino impara piuttosto «un nuovo comportamento di dolore», e cioè apprende dalla comunità in cui è nato e di cui fa parte non il significato ma gli usi delle parole, e a partire da quegli usi costruisce anche la propria interiorità.