La spiaggia romana di Capocotta non è più “alternativa” come una volta

Era frequentata da attori, registi e poeti, oltre che da persone della comunità LGBT+, ma le concessioni dei lidi sono scadute ed è rimasta solo un'oasi naturista

di Angelo Mastrandrea

La spiaggia di Capocotta
(Angelo Mastrandrea/il Post)
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All’ingresso dell’oasi naturista di Capocotta, sul litorale romano, il bagnino Stefano Onofri mostra un cartello con quattro divieti illustrati: scattare foto, campeggiare, masturbarsi e fare sesso. Sostiene che la prescrizione si è resa necessaria perché «a volte, purtroppo, qualcuno identifica il naturismo con il libertinaggio, ma questa è una spiaggia pubblica e alcuni comportamenti qui non sono consentiti». Invece, il naturismo è uno stile di vita basato sull’armonia con la natura, praticata anche attraverso il nudismo, e non ha nulla a che vedere con l’erotismo e la sessualità.

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Una stima molto citata ma di cui non è possibile rintracciare l’origine stima che in Italia il naturismo sia praticato da circa mezzo milione di persone. Gli iscritti alla federazione naturista italiana in realtà sono solo 5mila. I gestori dell’oasi dicono che in quasi 25 anni non c’è stato quasi nessun episodio di abusi o violenza. In pochi casi, qualche molestatore è stato allontanato o denunciato. Spiegano che chi non intende rispettare le regole può andare più avanti, in una zona che qui chiamano «terra di nessuno»: un centinaio di metri di spiaggia libera con le dune incustodita che separa l’oasi naturista dal Settimo cielo, un lido frequentato fino a un anno fa soprattutto dalla comunità LGBT+.

Ora il Settimo cielo è stato chiuso perché il comune di Roma non gli ha rinnovato la concessione, e poi è stato demolito. Le concessioni comunali dei sei chioschi che gestivano i due chilometri della spiaggia di Capocotta sono scadute dal 2015 e il comune, dopo una serie di proroghe annuali, ha deciso di chiuderli tutti tranne l’oasi naturista, che ha ottenuto una proroga fino a dicembre. Poi ha fatto un bando di gara che prevede una concessione di sei anni rinnovabili al massimo per altri sei, come stabilisce la direttiva europea cosiddetta “Bolkestein”.

Una foto del bagnino Stefano Onofri che mostra un cartello con quattro divieti illustrati: scattare foto, campeggiare, masturbarsi e fare sesso (Angelo Mastrandrea/il Post)

Il bagnino Stefano Onofri mostra un cartello con quattro divieti illustrati: scattare foto, campeggiare, fare sesso e masturbarsi (Angelo Mastrandrea/il Post)

Tra i criteri di «premialità» previsti dal bando comunale ci sono dei punteggi aggiuntivi per le proposte che includeranno attività in favore della comunità LGBT+ e la manutenzione delle dune. Non si tratta di veri e propri stabilimenti balneari, perché la spiaggia rimane libera e può andarci chiunque senza dover pagare l’ingresso, anche se i concessionari possono offrire servizi come il bar, il ristorante e il noleggio di lettini e ombrelloni. Il 22 maggio il sindaco di Roma Roberto Gualtieri e l’assessora all’Ambiente Sabrina Alfonsi, entrambi del Partito Democratico, hanno organizzato una conferenza stampa proprio sulle dune di Capocotta per annunciare l’assegnazione di tre chioschi su sei, anche se all’inizio della stagione estiva nessuno di loro è ancora attivo.

Per arrivarci dal centro di Roma bisogna percorrere tutta la via Cristoforo Colombo fino al mare, imboccare la litoranea in direzione sud e proseguire per cinque chilometri, superando gli stabilimenti balneari del lido di Ostia e i due chilometri di spiaggia libera davanti alla tenuta presidenziale di Castelporziano, a cui si accede da otto cancelli che l’allora capo dello Stato Giuseppe Saragat fece aprire nel 1965 per consentire ai cittadini di andarci.

Nel 1996 il ministero dell’Ambiente la dichiarò riserva naturale statale, insieme ai 59 chilometri quadrati della pineta di proprietà della presidenza della Repubblica. La spiaggia di Capocotta invece fino alla metà degli anni Ottanta appartenne agli eredi della famiglia reale Savoia, insieme alle dune e alla pineta retrostante, che si estendono per 10 chilometri quadrati. La spiaggia è lunga un paio di chilometri e confina da una parte con l’ottavo cancello di Castelporziano e sul lato opposto con l’aeroporto militare di Pratica di Mare. Rimase sostanzialmente abbandonata da quando, l’11 aprile del 1953, verso Torvaianica fu ritrovato il corpo di una ragazza di 21 anni, Wilma Montesi. Le circostanze della morte di Montesi non furono mai chiarite.

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Nel 1958 il comune di Roma stava per firmare un convenzione con i Savoia «per trasformarla in una città di 15mila abitanti, con la costruzione di 1.900 ville unifamiliari e alcuni alberghi: una lottizzazione insensata che avrebbe spietatamente privatizzato e distrutto quella meraviglia della natura e della storia», scrisse il giornalista, politico e ambientalista Antonio Cederna. Il progetto fu confermato dal piano regolatore approvato nel 1965, ma due anni dopo, in seguito alle proteste degli ambientalisti, il Consiglio superiore dei lavori pubblici lo bocciò e stabilì che a Capocotta non si poteva costruire.

Quando i cancelli di Castelporziano furono riaperti, per segnare il confine con la spiaggia di proprietà dei Savoia fu costruita una recinzione: presto vi furono fatti dei varchi per andarci clandestinamente. Per questo la spiaggia di Capocotta fu soprannominata «il buco». Poiché era appartata e protetta dalla macchia mediterranea, la spiaggia cominciò a essere frequentata dalla comunità LGBT+, i cui membri erano marginalizzati e stigmatizzati in misura ancora maggiore di oggi.

Cominciarono ad andarci anche i naturisti, che all’epoca non avevano un luogo dove poter prendere il sole e fare il bagno.

Gaspare Vichi, un muratore detto “Zagaia” perché era balbuziente (“zagaiare” in romanesco significa appunto balbettare), fu il primo a costruire una baracca con assi di legno da cui vendeva birra e panini con il tonno per i bagnanti. Nel 1977 lo trasformò in un ristorante all’aperto, «dar Zagaia ar buco», che per cinquant’anni è stato frequentato da artisti e poeti, registi e sceneggiatori, giornalisti e scrittori, politici e funzionari pubblici, giovani della Roma bene e borgatari di tutti gli orientamenti sessuali. Ai tavoli poggiati su una pedana di legno del chiosco si sono seduti personaggi del mondo del cinema come Robert Mitchum, Claudia Cardinale, Jane Fonda e il regista Roger Vadim, solo per citarne alcuni.

Sergio Leone ingaggiò Vichi per la parte del bandito Esteban, che viene steso da Clint Eastwood nella parte finale del film Per un pugno di dollari. Nel 1978 Rino Gaetano cantò «sulla spiaggia di Capocotta» nella canzone “Nuntereggae più”. Nel 1979 vi si svolse un Festival internazionale di poesia che durò tre giorni e a cui parteciparono poeti di fama internazionale come William Burroughs, Gregory Corso, Evgenji Evtuschenko, John Giorno, Allen Ginsberg e Lawrence Ferlinghetti. Negli anni Ottanta divenne la spiaggia della controcultura, delle feste gay e dei rave party.

Alessandro Lauri ci veniva da bambino con suo padre, che nel 1974 ci costruì un altro capanno di legno per vendere bibite e panini ai naturisti. «Fino alla metà degli anni Ottanta abbiamo dovuto fare i conti con le denunce degli eredi dei Savoia», ricorda. Poi, dopo l’esproprio, «ci dividemmo la spiaggia in cinque zone: noi naturisti stavamo qui dove ora c’è l’oasi, più avanti c’erano i trans brasiliani, poi i gay», racconta Veronica Ciotoli, che gestisce l’oasi insieme a Lauri. «Ogni estate venivamo qui e costruivamo un chiosco di legno, ovviamente abusivo, dove portavamo bibite e panini, ma non era come ora, spesso arrivavano i vigili urbani che facevano le multe e intimavano di tirare su le mutande», ricorda. Nel 1996, per regolarizzarli, il comune gli chiese di costituire una cooperativa sociale e così «ci siamo messi a vendere bevande, gelati e latticini biologici che ci venivano forniti da un’azienda agricola di Latina».

L’oasi naturista fu istituita nel 1999 con una delibera della giunta comunale di centrosinistra guidata da Francesco Rutelli. Non fu facile approvarla, perché ci furono molte polemiche in quanto si trattava del primo esperimento del genere in Italia. La sua creazione aprì la strada al riconoscimento di altre spiagge naturiste in tutta Italia. Oggi se ne contano 22, dal lido di Dante a Ravenna alla spiaggia del Troncone a Marina di Camerota, in Cilento, oltre a un’altra trentina dove il naturismo è tollerato. Lungo i due chilometri di spiaggia di Capocotta aprirono anche altri stabilimenti balneari che si affiancarono a Zagaia e all’oasi naturista, come il Mediterranea, che l’associazione Legambiente ha definito come un «chiosco ecosostenibile che garantisce servizi, cura della spiaggia e della duna, mantenimento della legalità e impegno ambientalista».

Una foto della demolizione dei chioschi di Capocotta

La demolizione dei chioschi di Capocotta, 23 maggio 2024 (ANSA/GABRIELE SANTORO)

«Oggi è una giornata importante, si finalizza il primo tassello di un lavoro che riporta la legalità sul mare di Roma e lo valorizza, da oltre vent’anni non si assegnavano i chioschi con bandi pubblici», ha detto Gualtieri alla conferenza stampa del 22 maggio. Due stabilimenti sono stati lasciati ai vecchi concessionari, ma lo storico Zagaia non ha ottenuto il punteggio necessario e sarà rimpiazzato da una società napoletana che gestisce altri 15 lidi, tra cui quello della Guardia di finanza a Ostia. Degli altri tre, uno non è stato assegnato perché a marzo il chiosco è andato misteriosamente a fuoco alla vigilia della messa a gara; il Settimo cielo è stato demolito dopo la conferenza stampa perché «non solo era diventato abusivo, ma aveva accumulato una morosità totale di 300mila euro», ha detto ancora Gualtieri; mentre l’oasi naturista ha ottenuto un’ulteriore proroga per evitare che la spiaggia rimanesse incustodita durante la stagione estiva. «Il nostro intento è rimetterla a bando a dicembre e riallinearla agli altri lotti di Capocotta», ha detto l’assessora Alfonsi.

I gestori non sono d’accordo e hanno fatto ricorso al Tar e anche alla presidenza della Repubblica, perché «questa è una spiaggia borderline, non si può fare un bando rivolto a tutti e senza parametri precisi che riguardano la sua particolarità», dice Ciotoli.

(Angelo Mastrandrea/il Post)

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I duecento metri di sabbia fine dell’oasi naturista sono tranquilli. Nessuno usa i cellulari, non si sente musica ad alto volume, c’è chi prende il sole o fa il bagno svestito e chi invece rimane in costume, e quando si va al chiosco per bere o mangiare qualcosa è obbligatorio vestirsi. «Fin dall’inizio abbiamo deciso di non ghettizzarci, qui può venire chiunque, non è una spiaggia riservata solo ai nudisti o ai naturisti», dice Ciotoli. «Abbiamo impiegato più di vent’anni per valorizzare questo posto, da quando nel 1999 il comune di Roma ha istituito l’oasi», dice Lauri. Hanno recintato le dune per preservare la macchia mediterranea, mantengono pulita la spiaggia e tengono aperto il chiosco dagli inizi di marzo alla fine di novembre. Quando è bel tempo, aprono il chiosco anche nei fine settimana d’inverno.

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«Abbiamo impiegato vent’anni per valorizzare questo posto e non vogliamo lasciarlo, ma non abbiamo le risorse per competere con i professionisti degli stabilimenti balneari», aggiunge Lauri. I fondatori dell’oasi temono una «normalizzazione» della spiaggia, o la sua trasformazione in un villaggio vacanze per naturisti come quello di Cap d’Agde, nel sud della Francia.

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