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  • Lunedì 10 giugno 2024

Cosa sta succedendo al Washington Post

L'amministratore delegato Will Lewis, voluto dalla proprietà per risollevare conti e risultati, sta facendo scelte che non piacciono alla redazione e che tra le altre cose hanno spinto la direttrice a dimettersi

La sede del Washington Post, nel One Franklin Square Building di Washington (AP Photo/Pablo Martinez Monsivais)
La sede del Washington Post, nel One Franklin Square Building di Washington (AP Photo/Pablo Martinez Monsivais)
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Una crisi in cui ormai da un paio d’anni si trova il Washington Post ha avuto la scorsa settimana sviluppi notevoli, con le dimissioni della direttrice, Sally Buzbee, e l’inizio di una riorganizzazione del giornale voluta dall’amministratore delegato Will Lewis. La redazione ha molto criticato le scelte di Lewis sugli incarichi più importanti del giornale, mentre vari media statunitensi hanno raccontato come uno dei motivi di tensione fra lui e la direttrice abbia riguardato un tentativo di Lewis di occultare una notizia che lo riguardava personalmente.
Tutto questo succede all’interno di una delle più importanti e illustri testate giornalistiche statunitensi, di grande fama internazionale, che negli anni precedenti era sembrata capace di una ritrovata centralità e sostenibilità economica.

E l’attenzione degli altri media americani si è dedicata anche alla sempre maggiore presenza britannica nei ruoli maggiori di diversi giornali statunitensi. Gli ultimi sviluppi hanno infatti mostrato i crescenti problemi economici e di risultati del Washington Post, ma anche un sempre più frequente ricorso a dirigenti e giornalisti britannici, nonostante le rilevanti differenze di approccio fra due modi di concepire e gestire il giornalismo.

Il Washington Post, fondato nel 1877, è uno dei maggiori e più autorevoli giornali statunitensi, vincitore di 73 premi Pulitzer e dalla storia gloriosa (le indagini sul caso Watergate che fecero dimettere il presidente Nixon nacquero da una sua inchiesta). Nel 2013, in un periodo di grossa difficoltà, venne comprato dal fondatore e proprietario di Amazon Jeff Bezos per 250 milioni di dollari: i suoi investimenti economici e la sua spinta verso l’innovazione ebbero il risultato di rilanciare il giornale, che superò la grave crisi economica, aumentò le dimensioni della sua redazione e tornò persino a essere competitivo con il New York Times, ampliando le proprie ambizioni anche nei settori su cui era sempre stato storicamente più debole, come gli esteri. Il Washington Post, in ragione del suo essere il giornale della capitale, è da sempre molto forte sulle cose della politica statunitense in particolare.

Da oltre due anni il giornale si trova però in una nuova crisi economica e di lettori. La direzione di Sally Buzbee, iniziata nel maggio del 2021, aveva mantenuto alti standard giornalistici e ottenuto sei premi Pulitzer (tre quest’anno), ma secondo la proprietà non era riuscita a fare abbastanza per superare la crisi.

(Photo by Andrew Harnik/Getty Images)

A novembre del 2023 Bezos aveva quindi chiamato il londinese Will Lewis, oggi 55enne, con l’incarico di risollevare conti e risultati: il giornale aveva perso 77 milioni di dollari nel 2023 e metà dei lettori dal 2020. In precedenza Lewis aveva svolto lo stesso ruolo nell’azienda Dow Jones, che pubblica il Wall Street Journal, mentre nel Regno Unito era stato prima direttore del Daily Telegraph, poi general manager della società che pubblicava il settimanale News of the World, di Rupert Murdoch.

Lewis aveva iniziato a lavorare a una nuova impostazione del giornale, e la settimana passata ha annunciato l’intenzione di creare una “terza redazione” (accanto a quella delle news e a quella delle opinioni) dedicata a produrre contenuti più leggeri, di servizio, o che funzionino sui social network. L’esigenza di un cambio radicale era stata proclamata in varie occasioni da Lewis, anche con considerazioni piuttosto drastiche sullo stato del giornale: «Siamo in grossi guai, e lo siamo da tempo».

Secondo quanto ricostruito dal New York Times Lewis avrebbe comunicato a Buzbee la volontà di affidarle la direzione della nuova redazione, in un evidente demansionamento (Buzbee dirigeva l’intero giornale). Buzbee avrebbe quindi deciso di dare le dimissioni, e domenica la notizia è stata comunicata in modo piuttosto frettoloso per evitare che il New York Times, che stava lavorando sulla storia, la pubblicasse per primo. A questo motivo principale si erano aggiunte crescenti tensioni fra Buzbee e Lewis riguardo alla gestione delle nuove notizie su un vecchio e famigerato scandalo dei tabloid britannici, risalente a dieci anni prima.

A seguito di quello scandalo, e delle relative inchieste che rivelarono una pratica frequentissima da parte di diversi giornali di violazioni della privacy e sorveglianze telefoniche, alcune persone furono condannate e il tabloid News of the World venne chiuso. In quel periodo Lewis venne chiamato dall’editore di alcune delle testate accusate, Rupert Murdoch, a gestire la crisi. Molte denunce si sono chiuse con transazioni da parte della società editrice, ma molte sono ancora in corso di giudizio: e nuove accuse sono state presentate nelle scorse settimane, coinvolgendo anche Lewis, che avrebbe tentato di nascondere quelle pratiche illegali e il fatto che i principali dirigenti della società di Murdoch ne fossero a conoscenza.

Sally Buzbee nel 2016, quando lavorava all’agenzia AP (AP Photo/Jon Elswick)

Secondo il New York Times, a marzo e a maggio Buzbee avrebbe informato Lewis dell’intenzione di pubblicare due articoli su questi sviluppi; Lewis avrebbe tentato di dissuaderla, anche piuttosto animatamente. Nel frattempo la rete radiofonica e testata online statunitense NPR ha scritto che già a dicembre 2023 Lewis aveva provato ad evitare la pubblicazione di un suo articolo sull’argomento.
Dopo le dimissioni, in una conference call con la redazione Buzbee ha però detto che i motivi del suo addio sarebbero altri, e legati appunto alla riorganizzazione del giornale e non a quegli articoli.

Al posto di Buzbee, Lewis ha nominato temporaneamente direttore Matt Murray, che aveva lavorato con lui al Wall Street Journal. Dopo le elezioni statunitensi che si terranno a novembre Murray si occuperà dell’area “social e giornalismo di servizio” che era stata proposta a Buzbee, mentre la direzione del giornale sarà affidata a Robert Winnett, londinese e collaboratore di Lewis per anni prima al Sunday Times, poi al Telegraph (di cui era finora vicedirettore). David Shipley è stato confermato alla guida della sezione delle opinioni.

Le scelte di Lewis sono state contestate dalla redazione in una riunione interna, per due motivi principali. Il primo è che non rispettano l’ambizione alla rappresentatività nei ruoli dirigenziali: i tre direttori sono infatti tutti maschi e bianchi. Il secondo è che inseriscono nei ruoli più importanti persone apparentemente scelte per il rapporto di fiducia con Lewis, senza compiere analisi o ricerche più approfondite sulle esigenze giornalistiche del Washington Post.

Will Lewis con Rupert Murdoch nel 2011 (Photo by Peter Macdiarmid/Getty Images)

Lewis ha dapprima risposto in modo piuttosto netto a queste obiezioni, ribadendo la necessità di un cambio radicale di direzione: «Non possiamo più indorare la pillola, stiamo perdendo grandi quantità di denaro e il vostro pubblico si è dimezzato negli ultimi anni. La gente non legge i vostri articoli. Bisogna prendere un’altra strada». Nei giorni seguenti Lewis ha poi mandato una comunicazione interna alla redazione in cui cercava di spiegare e giustificare in modo più conciliante le risposte più polemiche sulla necessità di cambiare totalmente approccio.

Come è successo piuttosto spesso negli ultimi tempi ai giornali americani, la nuova strada per migliorare conti e numeri sembra passare anche dal ricorso a una dirigenza britannica. Attualmente a capo di CNN c’è Mark Thompson, la direttrice del Wall Street Journal è Emma Tucker e quello di Bloomberg News è John Micklethwait: londinesi tutti e tre.

Come ha spiegato su X (Twitter) Emily Bell, direttrice del Tow Center della scuola di giornalismo della Columbia University, le proprietà dei media statunitensi ritengono il mercato del giornalismo britannico più mobile, meno statico e più «abituato alla competizione e al posizionamento in sezioni di mercato o secondo un’affiliazione politica». Questo favorisce il ricorso a professionisti britannici quando si tratta di competere per uno stesso pubblico, quello digitale, superando le tradizionali divisioni geografiche che avevano distinto i vari giornali degli Stati Uniti nel periodo in cui i maggiori ricavi arrivavano dalle copie cartacee.

Ma il trasferimento di dirigenti dei media dal Regno Unito agli Stati Uniti comporta anche molti adattamenti e non è privo di rischi, soprattutto per le grandi differenze di approccio alla deontologia giornalistica. David Folkenflik di NPR ricorda ad esempio come nel 2009 Lewis e Winnett furono autori di una grande inchiesta giornalistica che rivelò spese inappropriate di soldi pubblici da parte dei parlamentari britannici. Fu una grossa storia, che portò a dimissioni e riforme, ma partì da un pagamento di 110mila sterline (quasi 130mila euro) a una fonte per accedere a un database. È una pratica molto diffusa nei media britannici, ma che viola i codici etici di quasi tutti quelli statunitensi, che non pagano le loro fonti.