Un mito duro a morire sul funzionamento della lingua

La convinzione che ci siano aree specifiche che riconoscono un solo gusto è ancora molto diffusa, nonostante sappiamo da tempo che le cose sono più complicate

(Fox Photos/Getty Images)
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Per decenni milioni di studenti hanno studiato il gusto utilizzando una mappa che mostra come alcune zone della lingua siano specializzate nel percepire l’amaro, il dolce, l’acido e il salato. In realtà è ormai noto da tempo che non esiste una divisione così netta nella percezione dei gusti fondamentali, eppure uno studio pubblicato di recente sul New England Journal of Medicine ricorda che il mito delle zone della lingua è ancora ampiamente diffuso e influisce sul modo in cui molte persone pensano alla nostra capacità di percepire i sapori, che non dipende esclusivamente dai recettori che abbiamo in bocca.

La mappa della lingua deriva da un grande fraintendimento che ha ormai più di 80 anni. Nel 1942 lo psicologo Edwin Boring dell’Università di Harvard (Stati Uniti) scrisse un libro nel quale riportò alcuni estratti di una ricerca condotta in Germania quarantuno anni prima dal ricercatore David P. Hänig intitolata “La psicofisica del gusto”. Oltre a tradurlo in inglese, Boring adattò alcuni grafici dell’originale che mostravano come alcune zone della lingua fossero relativamente più sensibili a un gusto fondamentale rispetto a un altro.

La traduzione e i grafici contenevano qualche semplificazione e furono in seguito interpretati da altri autori come un’indicazione del fatto che alcune aree della lingua abbiano la specifica capacità di reagire a un solo tipo di gusto e non agli altri. Negli anni seguenti furono prodotte molte mappe della lingua che rispecchiavano questa impostazione, indicanti di solito l’esclusiva capacità della punta della lingua di riconoscere il dolce, le parti laterali il salato e l’acido e infine il retro della lingua per l’amaro. Le mappe finirono nei libri di scuola e divennero il principale riferimento per studiare la nostra capacità di percepire i gusti.

Esempio di una mappa della lingua utilizzata a lungo sui libri di testo scolastici (elaborazione da Wikimedia)

In realtà la percezione dei gusti avviene in buona parte della lingua e senza una particolare specializzazione, grazie alla presenza di una enorme quantità di papille gustative (più propriamente “linguali”), le piccole strutture che si trovano sulla superficie della lingua e in altre zone della bocca. È vero che la punta della lingua contiene una maggiore quantità di papille specializzate nella percezione del dolce, ma sono comunque presenti anche quelle in grado di rilevare gli altri gusti fondamentali.

In ambito accademico e di ricerca quella convinzione errata è stata rettificata da tempo e a ben vedere non aveva fatto molta presa nemmeno in passato, rispetto a quanto si fosse diffusa nel percepito comune. Per sfatare il falso mito è del resto sufficiente fare un esperimento: se si assaggia con la punta della lingua una fetta di limone, questa risulta chiaramente amara e acida anche se si sta utilizzando la zona che secondo la mappa dovrebbe farci percepire esclusivamente il dolce.

Esistono vari tipi di papille con diverse funzioni, non legate alla sola percezione del gusto. Alcune ci aiutano a percepire la consistenza del cibo, altre a farlo scorrere verso il palato o a trattenerlo temporaneamente per rendere possibile il riconoscimento delle sostanze che lo compongono. Le strutture da cui dipende buona parte della percezione del gusto sono i cosiddetti “calici gustativi”, minuscole strutture ovoidali dotate di recettori che reagiscono al contatto con particolari molecole e inviano poi i segnali al cervello, che ci aiuta a distinguere il sapore di una carota da quello di un quadretto di cioccolato insieme altre informazioni che riceve da altre strutture, come quelle dell’olfatto.

Altri recettori sono presenti in organi che non associamo all’idea di gusto come il fegato, il pancreas, ma anche i polmoni e il cervello. Il loro compito è di rilevare la presenza di particolari molecole in modo da attivare i meccanismi necessari per metabolizzarle. La presenza di particolari concentrazioni di zuccheri (carboidrati) nell’intestino viene per esempio rilevata da alcuni recettori, in modo che arrivino i segnali giusti al cervello per gestire i processi digestivi.

Diego Bohórquez, della Duke University (Stati Uniti), si è specializzato nello studio dei segnali inviati dall’intestino verso il cervello. Il suo gruppo di ricerca ha identificato alcune cellule specializzate, che ha chiamato “neuropodi”, che si comportano in modo simile alle strutture per percepire il gusto e che sono direttamente in contatto con le cellule nervose, che inviano poi i loro segnali al cervello per indicare quali sostanze sono presenti in un dato momento nell’intestino durante il processo digestivo.

Bohórquez ritiene che la percezione del gusto sia ancora più complessa di quanto fosse stato ipotizzato fino a pochi anni fa, e che abbia a che fare non solo con la nostra capacità di percepire i sapori, ma anche di incentivare il consumo di alcune sostanze importanti per il metabolismo.

La stessa catalogazione dei gusti fondamentali è discussa da tempo e ha portato talvolta a confronti molto accesi tra gli esperti. Si è ritenuto a lungo che i gusti fondamentali fossero quattro – dolce, acido, salato e amaro – ma dopo anni di discussioni alla fine degli anni Ottanta è stato riconosciuto anche l’umami, un particolare gusto che viene spesso associato ad alcune cucine orientali, anche se in realtà si presenta quando consumiamo brodi di carne, pomodori molto maturi e alcuni formaggi stagionati come il parmigiano. I meno conservatori suggeriscono inoltre che debbano essere aggiunti altri due gusti fondamentali: il fritto e il grasso, ma la questione è ancora molto dibattuta.

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