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  • Giovedì 30 maggio 2024

Storia di un romanzo osceno

La scrittrice Milena Milani è oggi ricordata per "La ragazza di nome Giulio", un libro sulla ricerca del piacere di una giovane donna, che uscì sessant'anni fa e per cui fu processata per offesa al pudore

Milena Milani nel 1963 (Paolo Monti/Fondazione BEIC/)
Milena Milani nel 1963 (Paolo Monti/Fondazione BEIC/)
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Nella primavera del 1964 in Italia uscì La ragazza di nome Giulio, un romanzo della scrittrice italiana Milena Milani che ebbe giusto qualche mese di tempo nelle librerie prima di venire confiscato dalla magistratura con l’accusa di offesa al comune senso del pudore. La ragazza di nome Giulio – che è poi stato ripubblicato, l’ultima volta nel 2017 dalla casa editrice SE – raccontava la storia di Jules, una ragazza cui era stato dato il nome del padre (da qui il titolo) e che dalla prima adolescenza agli anni dell’università esplora in modo libero il mondo delle relazioni e della sessualità, raccontando in prima persona le proprie avventure, frustrazioni e insoddisfazioni.

Anche se oggi il suo nome non dice niente a molti, Milani – che è morta nel 2013 – era allora una scrittrice, poeta, giornalista, pittrice e gallerista piuttosto affermata: il suo romanzo era stato proposto per il premio Strega e quando fu accusata di offesa al pudore vari intellettuali, tra cui il celebre poeta Giuseppe Ungaretti, testimoniarono in suo favore. Fu comunque condannata a sei mesi di reclusione (che non scontò) e a una multa: La ragazza di nome Giulio, che nel frattempo era stato tradotto e pubblicato in vari altri paesi con buone vendite, tornò a essere venduto in Italia solo anni dopo, quando Milani fu infine assolta in appello.

Milani raccontò di aver avuto in mente La ragazza di nome Giulio per quindici anni, ma di aver aspettato a scriverlo perché non erano anni «ideali» per un romanzo come quello, visto che le donne non avevano la libertà di esprimersi liberamente. Era nata a Savona nel 1917: la madre era cattolica e il padre era un anarchico con una mentalità molto conservatrice sulle questioni che riguardavano il sesso. Visse tra Roma, Milano e Venezia: da ragazza lavorò per un periodo per il giornale dei gruppi universitari fascisti (Guf) prima di opporsi al partito e cominciare a fare molte altre cose come letterata, giornalista ma anche artista e gallerista, insieme al compagno, Carlo Cardazzo, che era mercante d’arte. Per il suo lavoro nell’arte nel 1942 Filippo Tommaso Marinetti, autore del Manifesto del Futurismo, la nominò comandante generale di tutte le donne futuriste d’Italia.

Solo tra il 1961 e il 1962 si isolò per un inverno a Cortina e completò finalmente La ragazza di nome Giulio. Lo propose a Mondadori, la casa editrice con cui aveva pubblicato altri libri, che però lo rifiutò «trovandolo orrendo, impubblicabile e si auguravano, per la salvezza della mia anima, che non lo presentassi ad altri editori». Milani tenne il manoscritto da parte per un anno, poi lo presentò a Rizzoli che lo rifiutò e lo fece leggere al critico Geno Pampaloni che reagì in modo altrettanto negativo. Il manoscritto fu poi abbandonato in un cassetto per alcuni mesi perché nel frattempo Cardazzo si era ammalato di leucemia ed era morto.

A farglielo tirare fuori fu Arturo Tofanelli, allora direttore del settimanale Tempo, che poi disse a Milani di averlo letto tutto d’un fiato e di volerlo portare alla casa editrice Longanesi. Così fece: il direttore, Mario Monti, ne fu entusiasta e propose a Milani di cambiare solo il titolo, cosa che però lei si rifiutò categoricamente di fare. Quando uscì, ad aprile del 1964, il romanzo fu accolto da stroncature e lodi, e vendette 40mila copie (parecchie) nei primi sei mesi. A febbraio del 1965, dopo una serie di denunce da parte di lettori e associazioni cattoliche, il tribunale di Milano ordinò il sequestro di tutte le copie in commercio e il rinvio a giudizio dell’autrice, dell’editore e dello stampatore. Milani lo scoprì acquistando un giornale in aeroporto, appena tornata in Italia da un viaggio a New York.

Raccontò che iniziò per lei un periodo molto duro: il Corriere d’Informazione (una specie di versione pomeridiana del Corriere della Sera), su cui ai tempi scriveva una rubrica, la chiamò immediatamente per dirle che avrebbe interrotto la collaborazione. In generale ebbe per parecchio tempo poco lavoro e nessun sostegno da parte degli amici e, disse, «l’etichetta di pornografa sembrava bollarmi indelebilmente». Milani sostenne che il motivo per cui il suo libro era stato sequestrato non era solo legato alle scene di sesso che descriveva ma anche al fatto che lei, l’autrice, fosse una donna: lo disse per esempio allo scrittore Dino Buzzati quando le chiese come aveva fatto a farsi sequestrare il romanzo e le disse di non capire come mai il suo libro Un amore non fosse stato considerato allo stesso modo.

Letto oggi La ragazza di nome Giulio non risulta un libro particolarmente scabroso, ma si può intuire facilmente cosa lo fece apparire tale allora. Nei primi anni della sua adolescenza la protagonista si approccia al sesso in modo molto curioso e disinibito, ha una relazione sessuale con la propria governante, una serie di incontri intimi con ragazzi diversi e un rapporto ambiguo con un prete e un professore, il tutto dopo aver accettato una proposta di matrimonio in giovane età. Alcune scene di rapporti sessuali e masturbazione vengono raccontate in modo molto esplicito, a volte con dettagli particolarmente crudi, per esempio, sul sangue mestruale della protagonista. Milani scrisse che su questo argomento i giudici «fecero una sorta di dramma». Ma la cosa che forse sconvolse più di tutto è il racconto dettagliato e onesto dell’insoddisfazione sia sessuale che mentale che la protagonista prova all’interno di questi rapporti.

Milani definì il proprio romanzo «la storia d’una ragazza d’oggi che, affetta da un’accentuata frigidità mentale, spirituale e fisica non riesce ad inquadrare in giusta prospettiva i rapporti con l’altro sesso»; e la questione dell’incapacità di raggiungere il piacere e di dare importanza al corpo del partner è in particolare il tema che secondo Milani suscitò più indignazione. Disse che quella storia le era venuta in mente un’estate a Venezia parlando con una ragazza sconosciuta, che le aveva rivelato di non provare nessun piacere col proprio ragazzo e di non sapere come fare. La stessa cosa le fu poi rivelata anche dalla madre rispetto al rapporto col padre. Dopo l’uscita di La ragazza di nome Giulio Milani ricevette «decine, centinaia di lettere di maschi che si proclamavano forti amatori, credendo che io fossi la ragazza di nome Giulio, per farmi provare determinati piaceri».

Più volte però disse anche che per lei l’argomento principale di La ragazza di nome Giulio era «la ricerca di Dio, la volontà di sapere che cosa è realmente il peccato». Quando durante il processo il giudice le chiese di rendere conto delle «pagine decisamente un po’ forti» che compaiono nel libro, lei rispose che «siamo fatti, come ogni uomo e ogni donna, in parte di spirito e in parte di materia, di fisico. Nessuna di queste componenti può essere ragionevolmente ignorata. Le posso solamente dire, signor presidente, che non ho provato nessun compiacimento nelle descrizioni che ho ritenuto necessarie, anzi indispensabili».

Secondo quello che scrissero i giornali, durante il processo il pubblico ministero parlò di La ragazza di nome Giulio come di un libro in cui «ci sono descrizioni estremamente veriste di rapporti sessuali e omosessuali e tutta l’opera è percorsa da una corrente sessuale ad alto potenziale». In un’intervista uscita nel 1979 sulla rivista mensile femminista effe, Milani disse che l’attacco «terribile» del pubblico ministero e dei giudici le aveva fatto in realtà piacere perché «vivisezionavano le qualità “negative”» della sua protagonista: «la vivisezione era così accurata che mi confermava la vitalità del personaggio». Milani raccontò di essersi presentata al banco degli imputati con una gonna molto corta, che il suo avvocato le faceva continuamente segno di coprirsi le ginocchia e che alla fine lei decise di appoggiarci sopra dei giornali per timore di fare una cattiva impressione sui magistrati.

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L’accusa si rifaceva all’articolo 528 del codice penale, che vieta di distribuire scritti, disegni e immagini osceni, e che allora poteva ancora essere punito col carcere (oggi invece prevede solo sanzioni economiche). Il codice penale dice però che questo divieto non si applica alle opere d’arte, e su questo argomento si concentrò la difesa di Milani. Durante il processo Monti, l’editore, disse di ritenere La ragazza di nome Giulio un’opera valida sotto un profilo letterario, artistico e intellettuale. Ungaretti disse di conoscere Milani da tempo e la definì «una donna libera di idee, ma pudica e riservata» e aggiunse che «se nel suo libro ci sono momenti in cui sembra oltrepassare la misura, l’ha fatto per necessità artistica». Oltre a Ungaretti, il Corriere scrisse che si espressero in favore della scrittrice numerosi critici dei maggiori quotidiani italiani e stranieri.

Il procuratore che aveva avviato l’indagine su Milani, Pasquale Carcasio, era però particolarmente accanito per quanto riguardava quelle che reputava opere di offesa alla morale, tanto che divenne noto in quello stesso periodo per un’altra storia che fece enorme scandalo. Il 16 marzo del 1966 convocò nel proprio ufficio due studenti e una studentessa del liceo Parini di Milano perché avevano lavorato a un’inchiesta per il giornale studentesco La zanzara intitolato “Che cosa pensano le ragazze d’oggi?”, che toccava temi come il maschilismo e le discriminazioni di genere. Carcasio li sottopose a una specie di interrogatorio e a una visita medica a scopo intimidatorio, secondo una pratica prevista da una vecchia circolare fascista ma totalmente inammissibile per le leggi di quegli anni. Il caso suscitò grande clamore e la mobilitazione di intellettuali da tutta Italia. Alla fine del processo comunque Milani disse che nonostante tutto Carcasio le diventò «quasi simpatico» e che scrisse un testo teatrale dedicato a lui, che però rimase inedito.

Milani venne condannata proprio a marzo del 1966, insieme a Monti, a 6 mesi di carcere (con sospensione condizionale della pena) e centomila lire di multa. Lo stampatore, Enrico Sormani, fu invece assolto. Nella sentenza il romanzo veniva descritto come «dal carattere veramente spregevole, assolutamente mancante di qualsiasi particolare valore artistico o letterario o culturale». Ai tempi della condanna il libro era stato già pubblicato in Francia.

Sia Milani che Carcasio fecero ricorso in appello e il secondo grado del processo iniziò un anno e mezzo più tardi, a novembre del 1967. Milani raccontò che «successe quel giorno un fatto inusitato: il Pubblico Ministero invece di attaccarmi, riconobbe la fondatezza del mio appello, e parlò in senso positivo della ragazza Giulio». I due imputati furono quindi assolti e il libro, che nel frattempo era uscito anche nel Regno Unito, poté tornare in libreria. In realtà ci mise circa un anno perché molte delle copie pubblicate erano state vendute prima del processo, le copie sequestrate non furono mai restituite e il “piombo” con cui il libro era stato stampato era stato distrutto. Nel 1970 uscì anche un film con lo stesso titolo tratto dal romanzo, che fu presentato al Festival del cinema di Berlino.

Le vicende giudiziarie di Milani però non finirono del tutto nel 1967. Il Corriere della Sera scrisse che, dopo essere stata assolta per La ragazza di nome Giulio, fu incriminata nuovamente per il racconto Una ragazza difficile e a marzo del 1968 dovette presentarsi in tribunale a Milano per un nuovo caso relativo a «una corrispondenza dal Giappone dal titolo “Un bel dì vedrete”, nella quale, secondo l’accusa, si configura il reato di “oltraggio al comune senso del pudore”» poiché nell’articolo «viene esaltata la funzione educativa dell’arte erotica in Giappone».

Anni dopo, nel 1976, quando uscì il nuovo romanzo di Milani Soltanto amore, Vittorio Feltri le chiese in un’intervista se non temesse che quel libro potesse subire la stessa sorte di La ragazza di nome Giulio. Lei rispose: «non credo. I tempi per fortuna sono cambiati. Quella esperienza mi ha traumatizzato. Ricordo quei giudici che mi guardavano come se fossi un essere perduto, fonte di corruzione. Ma La ragazza di nome Giulio era soltanto una storia, la storia di una donna normale, come le vostre mogli e le vostre sorelle».

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