In Italia c’è un problema con l’affidamento condiviso dei figli?
Pare di sì, e pare che la legge venga applicata spesso in modo limitato: alcuni tribunali hanno cominciato a emanare delle linee guida per renderla effettiva
Alla fine di aprile il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha scritto su Twitter che intende occuparsi di “affidamento condiviso”, cioè la possibilità stabilita dalla legge di esercitare la responsabilità genitoriale in modo condiviso dopo una separazione. Orlando dice di voler lavorare perché la legge venga realmente applicata anche per quanto riguarda le sue implicazioni: cosa che, come confermano alcune associazioni e i dati dell’ISTAT, non avviene invece in modo lineare ed effettivo, ma solo formale. Tra legge e prassi ci sono insomma delle discordanze.
L’affidamento condiviso è stato introdotto nell’ordinamento giuridico italiano con la legge numero 54 del 2006: la novità più importante è stata l’introduzione del “principio della bi-genitorialità”, cioè del fatto che entrambi i genitori debbano esercitare insieme o separati la loro responsabilità di genitori. Concretamente significa che le decisioni importanti che riguardano i figli debbano essere prese insieme: quelle che riguardano per esempio la scelta della scuola, la salute o le linee educative.
Prima del 2006 esisteva una forma di affidamento condiviso e si chiamava congiunto, ma rappresentava solo una delle opzioni possibili: nei fatti era poi l’eccezione alla regola e il sistema prevalente era quello mono-genitoriale, l’affidamento esclusivo a uno dei due genitori (spesso la madre) e che finiva in molti casi per limitare la partecipazione del genitore non affidatario alla vita dei figli. Dal 2006 l’affido condiviso è diventato la regola ed è necessaria una motivazione ben precisa per stabilire che l’affidamento debba essere invece esclusivo. L’articolo 337-ter del codice civile (che si trova nella sezione dei provvedimenti che riguardano i figli e che è stato inserito dal 2014) dice poi che il figlio «ha diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori» e che il giudice deve valutare «prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori».
I principali problemi che pone l’affidamento condiviso, e che si concretizzano in un ostacolo alla condivisione effettiva, sono due: la questione della residenza del minore compresa l’assegnazione della casa coniugale e l’assegno di mantenimento. Nella maggior parte dei casi di affidamento condiviso i figli hanno come casa principale quella di uno dei due genitori che viene definito “genitore collocatario”: per garantire il diritto a mantenere un rapporto equilibrato con entrambi i genitori, il giudice che decide sulla residenza dei figli decide contestualmente anche tempi e modi per assicurare la presenza dei figli dall’altro genitore che viene definito “non collocatario”. La scelta della residenza dei figli ha conseguenze sugli assegni di mantenimento: entrambi i genitori hanno diritto di farne richiesta e dunque di trovare un accordo. Ma se questo non succede, prevale il diritto del genitore collocatario.
Nel rapporto dell’ISTAT del 2016 (riferito al 2015) si dice che per quanto riguarda il tipo di affidamento, negli ultimi dieci anni si è verificata una netta inversione di tendenza: «Fino al 2005, è stato l’affidamento esclusivo dei figli minori alla madre la tipologia ampiamente prevalente. Nel 2005, i figli minori sono stati affidati alla madre nell’80,7 per cento delle separazioni e nell’82,7 per cento dei divorzi». A partire dal 2006, in concomitanza con l’introduzione della nuova legge, la quota di affidamenti concessi alla madre si è ridotta a vantaggio dell’affido condiviso. Il sorpasso vero e proprio è avvenuto poi nel 2007 (72,1 per cento di separazioni con figli in affido condiviso contro il 25,6 per cento di quelle con figli affidati esclusivamente alla madre), per poi consolidarsi ulteriormente. Nel 2010 c’è stata una riduzione della percentuale dei figli affidati esclusivamente alla madre, pari al 9 per cento, tendenza che si è consolidata negli anni successivi. Nel 2015 le separazioni con figli in affido condiviso sono circa l’89 per cento contro l’8,9 per cento di quelle con figli affidati esclusivamente alla madre. L’ISTAT aggiunge che a dieci anni dalla nuova legge è possibile anche verificare in che modo la sua introduzione abbia modificato alcune caratteristiche delle sentenze di separazione emesse dai tribunali e che hanno a che fare con l’assegnazione della casa coniugale e con l’assegno di mantenimento. E spiega che al di là dell’assegnazione formale dell’affido condiviso per questi altri aspetti in cui si lascia discrezionalità ai giudici la legge non ha trovato effettiva applicazione:
«Ci si attendeva, infatti, una diminuzione della quota di separazioni in cui la casa coniugale è assegnata alle mogli e invece si registra un lieve aumento, dal 57,4% del 2005 al 60% del 2015; questa proporzione, nel 2015, raggiunge il 69% per le madri con almeno un figlio minorenne. Per quanto riguarda le disposizioni economiche, infine, non vi è nessuna evidenza che i magistrati abbiano disposto il mantenimento diretto per capitoli di spesa, a scapito dell’assegno: la quota di separazioni con assegno di mantenimento corrisposto dal padre si mantiene nel decennio stabile (94% del totale delle separazioni con assegno)».
Secondo diverse associazioni, l’affidamento condiviso resta dunque inapplicato per alcune sue conseguenze e ci sono stati diversi interventi anche al Senato per riformulare le norme, con l’obiettivo di garantire effettivamente il diritto e il dovere alla bi-genitorialità. Nel frattempo alcuni tribunali si sono portati avanti e hanno emanato delle linee guida che modificano la prassi. All’inizio del 2017, per esempio, il tribunale di Brindisi – seguito dal tribunale di Salerno – ha indicato la necessità di un coinvolgimento quotidiano di entrambi i genitori nella crescita e nell’educazione dei figli. Proprio per questo il tribunale ha suggerito che la residenza dei minori abbia un’importanza solo anagrafica e che i figli vengano domiciliati da entrambi i genitori, con la conseguente possibilità che entrambi trascorrano un tempo diviso equamente con loro e senza che vengano quantificati a priori i tempi di ciascuno. Il tribunale di Brindisi ha basato la propria richiesta sul fatto che nella legge del 2006 manchi «qualsiasi differenza giuridicamente rilevante tra il genitore co-residente e l’altro» e che se il tempo effettivamente trascorso con un genitore è superiore al tempo trascorso con l’altro questo debba avvenire per caso, da esigenze casuali, e non perché è stato imposto per legge a priori.
Questa impostazione ha conseguenze anche sull’assegnazione della casa familiare che, secondo il tribunale, dovrebbe restare al proprietario senza possibilità di contestazione. Nel caso la casa familiare sia di proprietà di entrambi, il genitore che lascia la casa avrà un mantenimento ridotto della metà del costo della locazione dell’appartamento con caratteristiche simili in cui andrà a vivere. Si presuppone dunque che la condivisione del tempo e della casa comporti anche la condivisione economica del mantenimento diretto, quella in cui ciascun genitore assume «una parte dei compiti di cura dei figli, restando obbligato a sacrificare parte del proprio tempo per provvedere direttamente ai loro bisogni, comprensivi della parte economica». Il tribunale ha suggerito infine di superare la suddivisione delle spese in ordinarie e straordinarie e di classificarle invece come prevedibili e imprevedibili: le spese scolastiche non sono spese quotidiane, ma sono comunque prevedibili, scrive. Questo comporta che le spese prevedibili siano assegnate all’uno o all’altro genitore per intero in base al reddito e che quelle imprevedibili siano divise in proporzione alle risorse.