Dopo Nagasaki e prima di Hiroshima
Pubblicato nella collana “Microgrammi” di Nonostante Edizioni nella traduzione di Gabriella Bosco, con una sovra-copertina lucida in cui sono rappresentati, quasi come se fossero dipinti, i quattro caratteri giapponesi del titolo, “Muga-muchū” è un libro piccolo e prezioso che si compone di due scritti di Philip Forest: il radiodramma “43 secondi” (il tempo che l’ordigno nucleare impiegò a raggiungere il suolo), che alterna la voce del pilota americano del terzo dei tre aerei del convoglio a quella di una donna giapponese che viveva sulle colline che circondavano Hiroshima, appena sveglia, nello splendore di una mattina d’estate in cui era difficile credere a qualsiasi orrore, e il racconto “Storia del fotografo Yōsuke Yamahata”, in cui è narrata invece l’esperienza dell’uomo che, con la sua Leica di ordinanza, fu il primo a fornire testimonianza delle vittime e della distruzione a Nagasaki.
Il momento che seguì Nagasaki e quello che precedette Hiroshima: fedele alle regole della tragedia greca, che non rappresentava mai direttamente l’orrore sulla scena, lo scrittore francese ha scelto di spostarsi quasi millimetricamente sulla linea del tempo per raccontare il più grande crimine di guerra della storia, il lancio della bomba atomica. «Muga-muchū significa “senza coscienza”. Cioè: privi di sé, in balia del vuoto, persi nell’estasi di un annientamento in cui svanisce ogni certezza di essere ancora qualcuno», ha spiegato Philip Forest. «È l’espressione che usarono quasi tutti i superstiti per indicare lo stato di prostrazione e la totale perdita di riferimenti cui li aveva ridotti la catastrofe nucleare».
Se è vero, come ricorda lo stesso Forest, che nessuno può dire niente sull’orrore di Hiroshima, allora che senso ha scrivere un testo letterario proprio su quel sole di sofferenza che ha brillato per la prima volta sul mondo quella mattina di 73 anni fa? La risposta è: per testimoniare, per alimentare la consapevolezza ed il ricordo. E per lo stesso motivo per cui si scrive, soprattutto in certi giorni, vale la pena leggere. Per risvegliarsi dagli incubi della storia e, forse, anche del presente.