Pasolini nel teatro
Dal momento che non ci si stanca mai di frugare dentro le cose di Pasolini – perfino di più che nella sua incredibile morte – vedo con piacere lo spettacolo ( “‘Na specie di cadavere lunghissimo”) che gli ha dedicato l’uomo del sud Fabrizio Gifuni, di fronte a una platea milanese concentrata, volonterosa, solenne.
La pièce è un tour de force per Gifuni, prima di tutto sotto l’aspetto fisico, per quanto suda, sbanfa, grida, corre e per quella capacità che mostra di saper zompare sui tavoli come un gatto, al rallentatore, neppure fosse un attore dei film di kung fu-mistico.
La prima parte dello spettacolo, a cui Giuseppe Bertolucci dà una regia sbrigativa e spartana, è dedicato a testi degli ultimi anni di Pasolini, quelli della disillusione e della polemica sociale, delle accuse ai giovani e della constatazione dell’indistruttibilità del clerico-fascismo. A risentirli, suonano rigorosi, affascinanti e vecchi.
La seconda parte invece è inattesa e travolgente: Gifuni assume i panni dell’ultimo ad accompagnarsi con Pasolini, il suo supposto carnefice Pelosi. E’ il Gifuni-riccetto borgataro a declamare, cantare, parodiare, mugolare la fine del nostro intellettuale. Il tutto su un testo scritto da Giorgio Somalvico, un poeta milanese (anziano, impacciato e dall’aria timida, che a fine spettacolo Gifuni pretende che lo raggiunga a centro scena, ma per lui sembra davvero troppo), in un’operazione letteraria meravigliosa, ridondante, citazionista eppure splendida. Somalvico fa rivivere il romanesco che potremmo dire arcaico (e certamente “letterario”) che fu lo stesso che Pasolini mise in bocca ai ragazzi di vita. Una lingua scomparsa (lo stesso autore s’è servito dei glossari pasoliniani inseriti in chiusura ai romanzi romani, per ritrovare certe espressioni sparite) eppure potentissima, grondante di sentimenti eccessivi, violenta e indifesa al tempo stesso. Così un attore pugliese e un poeta milanese celebrano un eroe friulano attraverso questa lamentosa quanto pirotecnica confessione d’un coatto, che di sé dice “io so’ periferico”. Grande bellezza, pulsante emozione, parole che fluttuano, un discorso che costruisce castelli in aria e geometrie momentanee, unendo la platea nella commozione, che resta sempre mancanza, ma almeno elaborazione e perfino rivisitazione, per voce e fonemi, d’un inesauribile lutto.