Milano, il cane Athos e Dario Fo
Piccolissimi satori. Correndo per Milano, che ci mette poco a ridiventare familiare, sono sempre distratto dalla moltitudine di lucine in città, quanto non ne avevo mai viste neppure a Manhattan, e penso (e dico) che sarà un modo di contrastare la depressione sospesa, le solite ansie collettive di cui sappiamo. Il bello è che ogni volta che ne parlo, guardando fuori dal finestrino, qualcuno s’affretta a tranquillizzarmi, dicendo la stessa cosa: non preoccuparti, sono tutte sponsorizzate. C’è qualcuno che ci mette i soldi, paga lucine e bollette, investe sul farci sentire più bambini, sull’addolcire la pillola: ma io lascio sospeso il giudizio se sia un’opera pia, o se dovrei gridare al paternalismo, il fatto è che non mi viene.
Comunque Milano così mi piace. Più che per il Natale, per la sua slanciata interpretazione della Shanghai d’occidente, città cantiere che si rimette radicalmente a nuovo, approfitta di un appuntamento vano come l’Expo – ma a chi gliene fregherà qualcosa dell’Expo? – per imboccare un quinquennio di mugolante sofferenza urbana, e darsi la forma contemporanea. Complimenti, davvero, comunque finirà, perché quel reticolato di gru che accerchiano Porta Garibaldi sono eccitanti, trasmettono dinamismo di metropoli come dev’essere, e che da noi siamo rassegnati a non trovare. A un certo punto della giornata, poi, mi ritrovo di fronte a un Dario Fo che rilascia paziente intervista su come vadano le cose in città. Dice appunto che sono andate male a lungo, ma che quanto è appena successo a Roma e che succederà presto anche qui, lo rallegra, ovvero che la violenza va condannata ma l’incazzatura no e che lui non teme di dire che gli studenti incazzati gli danno grande gioia e che siamo a un passo dal che si ricominci a chiamarli “extraparlamentari” con tutto ciè che comporterà quell’“extra”, persosi per strada.
Nella corsa di fine d’anno, le parole dal vecchio con occhi guizzanti e sciarpone bianco sono un godibile segno di vita, e dunque bisogna muoversi, ma non smettere mai di riflettere e rimuginare. Cosa a cui contribuisce la musica suggerita da un magnifico amico milanese e che viene dalle dita jarrettiane d’un leggiadro pianista indiano trapiantato a Brooklyn (dove sennò?) che si chiama Vijay Iyer e che in trio suona anche lui la suite della città e l’intitola Historicity, con tanto d’incipit prelevato dalle prigioni gramsciane. Nell’ennesimo taxi sprofondato tra le tremolanti lucine rosa di corso Buenos Aires, penso che questo risuonare turbolento sia ben più vivo dell’attesa scrutando i talk show e che il mio eroe di fine d’anno – di cui spero presto anche gli studenti arrabbiati si ricorderanno degnamente – sia il cane di bordo Athos, quello che ci ha creduto fino in fondo e che nella nave container alla deriva fuori dalle coste egiziane consolava i marinai, leccandoli uno dopo l’altro, sparsi in preda alla disperazione. E che alla fine, quando la nave l’hanno rimorchiata, salvo farla incagliare in rada e condannarla all’agonia, li ha visti sbarcare sul rimorchiatore e non ci ha pensato due volte, s’è buttato in acqua e in quel momento è arrivata un’onda pesante e l’ha sommerso e ammazzato, proprio lui che era stato l’unico che non s’era mai lamentato, epperò il più indifeso. Ad Athos, questa Milano che cambia e coi nervi esposti, ci piacerebbe facesse un piccolo monumento. Anche solo impermanente, di cartapesta. Messo su dagli studenti. Magari quelli d’una scuola d’arte.