Il posto in treno
Oh sì, davvero. Potete pensarla come volete, ma io sono un fan del 2’59” delle Ferrovie, il treno che porta dal centro di Roma a quello di Milano in meno di tre ore – e quel “meno” conta, per gli ansiosi in circolazione. Appena “meno” di tre ore nelle quali lavorare, telefonare, pensare, guardare fuori dal finestrino, con caffé caldo, ampio tavolino su cui appoggiare il tuo campionario di tecnologia e spina per ricaricare. Una cuccagna, altro che controlli di sicurezza in aeroporto. Poi, dal momento che siamo incontentabili, la goduria in questione può diventare un caso di bliss, di beatitudine assaporata poco alla volta, nel caso che nel vostro scompartimento open air, formato da quattro posti, non sieda nessuno e voi diventiate gli effimeri dominatori di quello spazio, appoggiando lo zainetto su una sedia, il cappotto su un altra e raddoppiando lo spazio-tavolo per metterci i giornali, tanto non ci sono fermate intermedie e chi c’è, c’è.
E’ qui però che entra in gioco un fattore imperscrutabile: la scienza dell’assegnazione automatica del posto, al momento di quella prenotazione in Rete che utilizziamo tutti. Ovvero: come si fa a viaggiare soli, dando fondo alla propria introversione? Se qualcuno dispone di metodi, questo è il momento di tirarli fuori. Io sull’argomento sono un perdente nato e gli studi statistici che conduco mi portano alle seguenti conclusioni: 1. il computer se ne frega dei tuoi desideri di privacy e ti distribuisce come gli pare, secondo teorie di suddivisione dei pesi o forse di rapidità dei servizi di controllo e ristoro. 2. Io sono sfigato, perché non si spiega altrimenti una vita trascorsa a condividere scompartimenti con forze armate e clero e neppure un singolo, sparuto caso di “bella straniera”. 3. Esiste un fluido magico, una sublime casualità che potrebbe essere ribattezzata “culo” che gira bacia sempre e soltanto i tipi disinvolti col trolley firmato che occupano il loro settore già consapevoli che solo il loro cappotto di cammello avrà l’ardire di condividere il magico quadrilatero.
Adesso però leggo sul New York Times un sapiente articolo che getta nuova luce sul mistero. La firma è di John E. Wideman, sociologo, romanziere di buon successo (tempo fa lessi con piacere il suo “Two Cities”, storia del quartiere nero di Pittsburgh) e docente di studi africani in quella meravigliosa università della Ivy League che è Brown, sulla collina di Providence, un posto meraviglioso per ricevere un’educazione. L’editoriale scritto da Wideman è dedicato proprio al nostro argomento e s’intitola “Il posto non occupato”.
Wideman racconta che due volte alla settimana prende il treno veloce Acela della Amtrak, tra New York, dove risiede, e appunto Providence dove insegna. E anche lui, durante le circa quattro ore di percorso si è dedicato a condurre esperimenti comportamentali e numerologici. Ha cominciato dopo aver notato che, una volta salito a bordo e occupato un posto in carrozza – sempre semivuota perché a lui piace arrivare presto – praticamente sempre i posti vicini a lui restano liberi, nonostante il treno si affolli rapidamente. Wideman a questo punto mette in gioco quella che chiama una verità inquietante: “io sono un uomo di colore, uno dei pochi, spesso l’unico nella carrozza. Motivo per cui ho concluso che sia il colore a determinare questa coincidenza”. Aggiunge di essere un tipo pulito, che non puzza, che non si veste in modi strani, privo di disgustose deformità o di visibili indicazioni di preferenze religiose. Un bel signore di 70 anni, insomma. Che paga il sovrapprezzo previsto per il treno rapido, esattamente come nel caso del nostro 2’59” Frecciarossa. Per cui non può essere che il colore della pelle, conclude.
Wideman a questo punto ironizza sul fatto che non presenterà reclamo per il privilegio di viaggiare comodo, lui che da ex giocatore di pallacanestro deve avere le gambe lunghe e doloranti. Però non può evitare di dolersi del fatto che, nonostante ci sia un nero alla Casa Bianca, i suoi connazionali preferiscano girargli alla larga su quel treno, alla faccia dell’America post-razziale. Certo si gode il vantaggio, ma assapora anche la tristezza, connessa al suo matematico ripetersi. “È qualcosa di pericoloso, se non gli dedichiamo un’analisi. Dei manifesti sui treni, degli avvisi nelle stazioni. Chi sa parli”, sono le ultime ironiche parole.
A questo punto mi fregio di porre il mio (e il vostro, s’intende) pendolarismo al centro di una ricerca: perchè tutti si vogliono sedere vicino a me? Per esclusione, è solo perchè “non sono di colore”? Perché sussurrano nei cellulari coprendo la bocca con la mano, come fa Cassano quando parla coi compagni di squadra? E sarà vero, come suppone Chris Wilson in un altro valoroso articolo sull’argomento pubblicato da “Slate”, che la questione non sarà mai veramente chiarita, finché non si tiri in ballo l’intervento divino?