A riveder le stelle
Davvero non perdetevi la diretta dalla miniera di San Josè per il miracoloso salvataggio dei 33 lavoratori rinchiusi da due mesi sottoterra. Vi riconcilierà, finalmente, con la televisione. È uno spettacolo serio, appassionante, sereno e soprattutto pieno di competenza, calma e decenza. Dopo l’intossicazione delle immagini dalla stadio di Marassi che alla fine si sono sublimate nel delirio extraterrestre dell “X-Factor” di mezzanotte, le microcamere che testimoniano la partenza degli uomini dal loro buco sottoterra in quel lontano angolo di mondo, le troupe che aspettano sopra nella notte cilena, le voci chiare e comprensibili, le facce del parente autorizzato fuori dal buco (gli altri aspettano nella zona di “re-incontro” ma nessuno esagera, nessuno dà spettacolo) e poi gli abbracci, i controlli medici, le prime parole e soprattutto i minatori che riaffiorano una alla volta, possono riconciliarvi con l’assurdo rituale che ci tiene, per una assurda porzione di tempo della nostra vita, fermi davanti a un monitor.
Quando dalla capsula è uscito Jimmy, il minatore ragazzino, 19 anni, che ha già un figlio e in famiglia raccontava che quella miniera era una trappola, quando è uscito tenendo tra le mani la bandiera della sua squadra del cuore, quella dell’Università, coi suoi occhialoni da sole per non offendere gli occhi e perfettamente sbarbato, e con sobria dignità è stato accolto da chi l’ha salvato, a me è venuta voglia soltanto di continuare a guardare. Pensando a come i miracoli siano frutto soltanto del raziocinio, della riflessione, della capacità, della collaborazione, dell’empatia. Del cuore e del cervello. Cuore, cervello, compostezza e silenzio. Perché quel silenzio tranquillo e operoso attorno al buco oscuro è un messaggio limpido, se ci si ferma a contemplarlo.