Gigo gigoló, gigo gigolà
Che questa estate sia stata stolta, alla luce delle emergenze in corso e delle necessità nemmeno scalfite, si era tutti d’accordo. Mancava però un emblema di questo disastro annunciato. O almeno l’emblema c’era, siamo noi che non ce ne siamo accorti per tempo. Meno male che si può rimediare. E’ una canzone. Di un duo famoso. Quello di “Banana Republic”. I venerabili veterani Dalla e De Gregori che, come saprete, hanno riformato il sodalizio per dare profondità postmoderna alla spiegazione di come facciano i marinai. Il fatto è che non si sono fermati qui. Nonostante si sappia che la loro coppia soffra dei tipici problemi di una coppia – incomprensione, stanchezza, incomunicabilità – non si sono limitati a riscaldare la minestra. Hanno fatto del nuovo. E qui arriviamo alla canzone-bandiera per l’estate che finisce. Si chiama “Gigolò” e a sua volta ha una storia stranissima, che comincia addirittura nel 1928, quando un italiano, Leonello Casucci, e un austriaco Julius Brammer, la scrivono, in tedesco (“Schöner Gigolo”), con ambizioni melodrammatiche: simboleggiare la caduta dell’impero austroungarico attraverso le parole di un ussaro finito a fare il ballerino a pagamento – eufemismo per dire “marchetta”. Nel 1956 la canzone viene ripescata da Louis Prima che ne elabora l’arrangiamento destinato a divenire un evergreen, col famoso, ruggente ritornello “I Ain’t Got Nobody” preso di peso in prestito da un’altra canzone, addirittura del 1915. Il brano diventa un gran successo, replicato trent’anni più tardi da David Lee Roth, vocalist di Van Halen, con una nuova vitaminica rilettura.
Adesso arrivano Lucio e Francesco. L’idea è del primo, il testo lo scrivono diligentemente metà per uno (la prima parte è di Dalla). L’esecuzione è scolastica, perfino un po’ spompata, nel complesso diligente, ma potrebbero fare di più. A sentirla la prima volta si resta interdetti, si assapora un pizzico di malinconia. Poi la verità viene a galla: il gatto e la volpe ci stanno prendendo per i fondelli. Anzi, stanno mettendo in scena una demenziale commedia dell’assurdo, in cui c’è di tutto, preso dai bestiari che bazzicano i rotocalchi nazionali:
Dalla canta:
“Solo un gigolò
Un pupazzo nella neve
In mezzo a un campo nella notte
Un passero sul filo
Di un pensiero che si siede
Un pesce innamorato della rete”
De Gregori risponde:
“Sono un gigolò
Un triste gigolò
Che canta
Ho un fiore in una scarpa
Un vecchio sulla strada
La mano sulla spada
Negli occhi un cielo o una finestra”
Verso il ritornello a due voci:
“Ah i love you baby
Sono un gigolò
Un matto di Lyon
Tra i passi tristi della gente
Sul treno sono un cuore
Che mischi il suo dolore
Nell’acqua buia della notte”.
Quando ormai siete prigionieri dell’enigma, ossessionati alla ricerca della chiave di questa metafora, ecco esplodere i versi cardine dell’italian version:
“Gigo gigolò
Gigo gigolà
La notte passa
E il tempo vola
E canta che ti basta
E basta che ti va…”
Chiaro, no? Gigo gigolò, Gigo gigolà. Il resto non ha più importanza. Lo confermano i due artisti, chiudendo con l’immagine del
“Cuore incaprettato
Di un uomo innamorato
Pero’
Pero’ che batte ancora”
Da 48 ore ormai ascoltiamo ciclicamente questa ode al contemporaneo. Ci siamo convinti che “Gigo gigolò, gigo gigolà” sia una gran verità. Nonché una delle formule più azzeccate per confrontarsi con le imminenti sfide d’autunno.