Cerco un centro di gravità permanente
Anni fa scoprii, con lo sbigottimento del forestiero, che in effetti la “musica napoletana” – quella vera, pura, completamente locale, a consumo regionale, quello coi suoi divi, le sue star e soprattutto il suo suono – beh, non veniva prodotta a Napoli, o per meglio dire “solo” a Napoli, ma che la fucina più attiva e interessante invece era a Catania, patria della mitica Sea Musica e di formidabili interpreti come Gianni Celeste, Gianni Vezzosi, Davide Live.
Le constatazioni da aggiungere a questa rivelazione sono due: in primo luogo, che questa musica, per motivi esoterici, la si riesce ad ascoltare e in certi casi anche a godere, solo nei suoi luoghi. Là risuona nell’aria, la trovate dappertutto, dopo un po’ la distinguete e finite perfino per farvi un proprio elenco di favoriti, una personale hit parade. Garantito. In secondo luogo, la musica napoletana di Catania, diversamente da quella partenopea verace, è contaminata neppure si parlasse di jazz-rock. Nei suoi suoni entrano le basi della techno banale, quella automatica e un po’ bolsa (il che spesso è una palla al piede), ma allo stesso tempo dentro queste canzoni imperversano melodie e strutture armoniche prese di peso dalla musica leggera araba – i lunghi strumentali ipnotici, i cantilenanti assoli senza fine, vocalizzi che finiscono per sublimare la tipica invocazione amorosa del pezzo.
Adesso però, posso chiudere il cerchio: qui accanto ho accesa la radio tunisina, stazione Jeunes, la migliore per sentire cosa va genio ai ragazzi di Kelibia. Ebbene, è pura musica napoletana, versione di Catania, ma cantata in arabo. Bellissima. E gli assoli sono lunghi il doppio. Naturalmente consumabile solo sul posto.