Vintage basket
La modesta percentuale di italiani che vedono malinconicamente una lunga estate senza pallacanestro, in attesa che qualcosa pigramente ricominci a muoversi a fine settembre, può consolarsi, che diamine, leggendo. Basta una conoscenza basic dell’inglese per godersi “Red and Me” (Harper/Collins, acquistabile e scaricabile da Amazon) scritto da Bill Russell (monumento dell’Nba, miglior centro della storia del basket e protagonista dell’irrisolto dualismo con il collega di ruolo Wilt Chamberlain), in quanto i due, Red Auerbach e l’autore, sono uomini di pochissime parole.
Auerbach era un coach che faceva anche il general manager, il direttore sportivo, il padre e lo psicologo – era bianco, basso, newyorkese, masticatore di sigari. Russell era la forza della natura sotto le plance, uno che ancora non si era studiato il modo per fermarlo – per lui si sprecavano i soliti luoghi comuni sulla “colonna d’ebano” e il “gigante nero”. I due si stimano, anzi, direi imparano ad amarsi, ma in silenzio. Grugnendosi a vicenda, tenendosi d’occhio, studiandosi, ascoltandosi ma senza mai reciprocamente darsi soddisfazione, e infine vincendo il vincibile con le maglie dei Celtics di Boston, generando la leggenda di quella squadra negli anni Cinquanta e Sessanta e uscendo di scena da trionfatori. Salvo ritrovarsi, vecchi, acciaccati e coperti di gloria, a rimettere in piedi il teatrino.
Red che muore, Bill che per l’ultima volta lo va a trovare, i due che se ne stanno ciascuno sulle sue, si scambiano frasi di circostanza, dopo poco già si accomiatano, fin quando, in un impeto di confidenza il coach del Bronx chiama l’ex-prodigio della Louisiana e gli dice: “Stai attento! Quando sei vecchio, non cadere. Se cadi, è l’inizio della fine”. Un consiglio, un avviso, un minimo slancio: ma tra quei due è già tantissimo, è affetto puro. Storia di un testa a testa orgoglioso, dentro e fuori il campo di gioco. Ma naturalmente c’è molto altro in questo magnifico memoir di un’amicizia rognosa.
C’è soprattutto il resoconto di una pallacanestro in cui i caratteri e le psicologie dei giocatori venivano prima dei muscoli, e quindi si affidavano missioni impossibili a “eroi per un giorno”. Poi c’è un America scomparsa, semplice, energetica e ruspante. C’è uno sport ancora approssimativo, un individualismo avventuroso e dignitoso. Bella lettura, preparandosi a registrare la saga dei tre maghi di Miami, LeBron, Wade e Bosh riuniti con la stessa maglia – nuova, sublime, attrazione di questo sport.