La prova del DNA nell’omicidio di Yara Gambirasio
Quando durante il processo di primo grado per l’omicidio di Yara Gambirasio il presidente della Corte d’assise di Bergamo disse al capo dei Ris di Parma, Giampietro Lago, in quel momento seduto sulla sedia dei testimoni, che avrebbe dovuto «pensare di farsi capire da un bambino di sette anni», lui rispose così: «Le probabilità di sbagliare sul fatto che quel DNA mescolato a quello di Yara sia di Ignoto 1 è di una su 20 miliardi». Per fare un esempio: le probabilità di vincere con un sei al Superenalotto sono una su 622 milioni. Ignoto 1 era la formula utilizzata nel corso delle indagini per indicare l’aggressore e assassino di Yara.
Due giorni fa Massimo Bossetti, condannato all’ergastolo in via definitiva per quell’omicidio, ha scritto una lettera al quotidiano Libero dichiarandosi innocente. Il giornale ha accompagnato la lettera con un articolo che più o meno diceva: “Su questa sentenza ci sono molti dubbi. Mancano prove incontrovertibili. Gli indizi messi tutti insieme non bastano”. È una posizione assolutamente legittima, le sentenze, anche quelle ormai in giudicato, possono essere discusse, contestate. Ci sono però macigni che non possono essere spostati semplicemente e poi ignorati. La frase “Al di là di ogni ragionevole dubbio” è bellissima e sensata. Ma poi i dubbi a volte vengono sciolti dalle prove. E il DNA è una prova.
Yara aveva 13 anni, scomparve a Brembate di Sopra, in provincia di Bergamo, la sera del 26 novembre 2010. Percorreva un breve tragitto di strada: dalla palestra a casa, poche centinaia di metri. Faceva ginnastica ritmica ma quello non era il suo giorno d’allenamento, era andata lì per riportare uno stereo che serviva alle altre ragazze. Alle 20 non era ancora tornata a casa, la madre chiamò il suo cellulare: tre squilli, poi scattò la segreteria telefonica. Chiamò in palestra, le dissero che Yara era uscita alle 18.30. Scattò un’operazione di ricerca imponente, con centinaia di uomini in azione. Trovarono il corpo di Yara solo tre mesi dopo in un campo di Chignolo d’Isola, a meno di dieci chilometri da Brembate, dove un aeromodellista, il pomeriggio di sabato 26 febbraio, era andato a far volare il suo aereo. Il corpo aveva una profonda ferita al collo e altre sei ferite da taglio. L’autopsia accertò poi che Yara era morta in seguito alle ferite e per il freddo.
Sugli slip, in prossimità del punto in cui erano stati tagliati dall’aggressore, venne trovata una traccia di DNA mista. Significa che c’era il DNA di Yara insieme a quello di un uomo. La posizione di quel DNA, proprio sugli slip nel punto in cui erano stati tagliati e nel contesto di una aggressione a sfondo sessuale, e il fatto che appartenesse a qualcuno completamente estraneo al mondo di Yara, portò al convincimento che quello era il DNA dell’aggressore. Per chiarire: sul giubbotto della ragazza venne trovato il DNA della sua istruttrice di danza: poteva essere finito lì in mille occasioni. Ma quel DNA maschile sugli slip poteva esserci arrivato solo in un momento preciso: durante l’aggressione. L’uomo di quel DNA venne identificato, appunto, come Ignoto 1.
Si è detto molto di quella traccia genetica mettendo in dubbio l’attendibilità degli esami di laboratorio. In realtà il test su quel DNA venne ripetuto molte volte grazie a sette kit di analisi, tutti quelli disponibili sul mercato internazionale. Di solito per identificare con certezza un soggetto in scienze forensi vengono analizzati 15 marcatori genetici: nell’indagine su quel delitto ne vennero utilizzati 52. Per gli investigatori non ci potevano essere dubbi: quel DNA era quello dell’aggressore di Yara.
L’assassino era quindi Ignoto 1 ma non si sapeva chi fosse. Partì allora un’indagine a tappeto senza precedenti. Quel profilo genetico non risultava schedato, non aveva nessun precedente. Moltissimi abitanti della zona si presentarono per fornire il proprio DNA per facilitare le indagini. Si arrivò quindi a una traccia genetica che aveva punti in comune con quella dell’aggressore. Si analizzò quello dei suoi familiari e, passo dopo passo, si arrivò a individuare un autista di pullman, Giuseppe Guerinoni, morto nel 1999. Lui era, in base ai test (venne riesumato il cadavere) il padre di Ignoto 1. Già, ma il DNA dei suoi figli non corrispondeva a quello che si stava cercando. Conclusione: bisognava cercare qualcuno nato fuori dal matrimonio, un figlio illegittimo. Scattò quindi un altro tipo di indagine, condotta pazientemente sul campo: centinaia di colloqui nei bar, ricordi, dicerie. Guerinoni a fine anni Sessanta aveva avuto una relazione extraconiugale con una donna, Ester Arzuffi. I carabinieri fecero a quel punto quello che si vede nei film: fermarono, in momenti diversi, i due figli maschi di Ester mentre erano alla guida: il pretesto era il test per il tasso alcolemico nel sangue. Il DNA di uno dei due figli, quello di Massimo Bossetti, muratore di Mapello (che non sapeva tra l’altro di essere figlio di Guerinoni), combaciava perfettamente con quello di Ignoto 1. Cosa importante: il DNA di Bossetti non era mai entrato prima nei laboratori. Non c’era nessuna possibilità di contaminazione. Il 16 giugno 2014 Massimo Bossetti venne arrestato, nei primi interrogatori non negò neppure che quel DNA fosse il suo. Tre gradi di giudizio lo hanno dichiarato colpevole dell’omicidio di Yara.
Una delle tesi che ancora oggi sostiene chi è convinto dell’innocenza di Bossetti è che le tracce di DNA non fossero quantitativamente sufficienti. I Ris di Parma obiettarono spiegando che in alcune aree della traccia la quantità complessiva di DNA corrispondeva a circa 2.000 picogrammi: una quantità considerata addirittura eccessiva in ottica forense. Questo secondo i giudici confutò la tesi secondo cui il DNA di Ignoto 1 fosse così scarso da non rendere possibile una identificazione certa né la ripetizione del test. La ripetizione poi in realtà non fu mai chiesta dalla difesa.
C’è un altro aspetto: una porzione del DNA, quello mitocondriale, non corrisponde a quello di Bossetti. La risposta dei Ris a queste perplessità è molto tecnica: è la fusione del materiale genetico dei gameti dei genitori biologici che dà vita alla doppia elica del DNA nucleare, mentre quello mitocondriale viene trasmesso solo per via materna e non è identificativo di una sola persona ma può ricorrere con frequenza all’interno della popolazione senza che questa sia imparentata (se non per antenati comuni molto distanti nel tempo). Per questo, in fase di identificazione, si utilizza esclusivamente il DNA nucleare mentre il mitocondriale si ignora del tutto a meno che sia l’unico elemento a disposizione, visto che può resistere anche a distanza di molto tempo. Ma, come si è visto, non è questo il caso.
Questa è la storia. In definitiva: le giurie ebbero certezze da cui non si discostarono nei tre gradi di giudizio: che la traccia mista trovata sul corpo di Yara appartenesse a Ignoto 1; che quella traccia mista fosse stata lasciata nel momento del delitto e che fosse la traccia dell’assassino; che il DNA di Ignoto 1 corrispondesse a quello di Massimo Bossetti. Questa è la storia. C’erano poi altri elementi ma il processo si giocò quasi esclusivamente sulla questione del DNA.
Molti continuano e continueranno a nutrire dubbi. Ci sono gli innocentisti e i colpevolisti, come sempre avviene nei grandi casi di cronaca, qualunque sia il verdetto della giuria. I documenti del processo sono pubblici, ognuno può farsi un’idea, avere le sue convinzioni.
Resta però alla fine quella domanda: se quel DNA è di Massimo Bossetti (ed è di Massimo Bossetti) come è finito sugli slip che Yara indossava mentre veniva aggredita e uccisa?