Ultras, questi sconosciuti
Il titolo peggiore era su Gazzetta.it: “A Roma ha perso il calcio”. E che vuol dire? “Fatti che con il calcio non c’entrano niente”, dicono telecronisti e commentatori. Lo ripetono da 40 anni. Come se i vari Genny a’ carogna spuntassero dal nulla, all’improvviso, usciti da sotto un cavolo, comparsi in una curva. Come se improvvisamente sgranassero gli occhi: “Oh, e chi sono quei brutti e cattivi?”. Come se le curve, intese come aggregazioni di tifosi organizzati, diretti da una precisa struttura gerarchica, non fossero parte integrante e organica del calcio.
A marzo, dopo una sconfitta del Milan, Balotelli fu portato a colloquio con un capo ultras. Che evidentemente lo assolse. Quello stesso capo ultras venne poi intervistato da Sport Mediaset. Disse: “un colloquio era necessario”. Ma questo “non c’entra nulla con il calcio”, direbbero i commentatori. Episodi così ce ne sono dappertutto. Da San Siro allo Juventus stadium (dove da anni c’è una guerra feroce per il controllo della curva), da Roma a Napoli a Palermo. Le curve sono saldamente nelle mani della criminalità organizzata, capi ultras e boss criminali sono spesso la stessa cosa.
Un articolo del 2012 della Gazzetta dello sport raccontava come a Bergamo giocatori, allenatori e dirigenti abbiano sempre fatto la fila per inchinarsi di fronte a uno dei capi ultras più celebri d’Italia, il Bocia. Le intercettazioni che rese note allora la squadra mobile raccontano tutto un mondo: ci sono allenatori che chiedono sostegno contro la società, altri che chiamano il capo ultras per sputtanare un dirigente, giocatori che invocano aiuto per poter tornare a giocare nell’Atalanta. Come se fossero i capi ultras a decidere chi la società deve comprare, quale allenatore può allenare.
I giocatori i capi delle curve li conoscono bene, vanno alle feste organizzate da loro, a volte, se squalificati o infortunati, vanno in curva, in mezzo a loro, a posare per le foto. Ci vanno di loro spontanea volontà? No, certo. A spedirli sono le stesse società che quegli ultras li tengono buoni perché forse faranno comodo domani quando ci sarà da far pressione sulla federazione o ci sarà da contestare quel dirigente o da mandare via quel calciatore. Teneteli buoni, serviranno. E comunque è sempre meglio non farli arrabbiare. O credete che i biglietti che vengono poi rivenduti in curva piovano dal cielo? Poi, se succede qualcosa come ciò che è accaduto a Roma per la finale di coppa Italia, ci si gira tutti dall’altra parte.
Certo, è vero: a volte i giocatori sono ostaggi, costretti, come accadde a Genova due anni fa, a sfilare davanti agli ultras togliendosi la maglia. Ma ci sono anche giocatori che con i capi ultras si sono messi in affari per produrre e vendere magliette o per aprire locali. E capi ultras che campeggiano da enormi manifesti elettorali. Perché lì, in curva, si vanno a prendere i voti e si reclutano militanti. Poi qualcuno diventa anche assessore, o magari europarlamentare.
Sulla Gazzetta dello sport in edicola c’è un commento dal titolo “Renzi, niente da rottamare?”. È sempre così, la palla viene spedita fuori dallo stadio, lontana: come a dire “Occupatevene voi, il calcio, il bel giocattolone, non c’entra niente”. Sui giornali si parla molto ovviamente anche dell’inno di Mameli fischiato dalle due curve, quella napoletana e quella fiorentina. Ma in Italia funziona così, per qualsiasi inno. O gli inni nazionali degli altri valgono meno? Se ne sono mai accorti i solerti commentatori Rai? Quando gioca la Nazionale, negli stadi italiani, si fischia regolarmente l’inno degli avversari. Non succede in nessun altro stadio d’Europa, o almeno è molto raro. Ricordo Italia Francia a San Siro qualche anno fa: tutto lo stadio fischiò la Marsigliese. Ma proprio tutto, mica solo le curve: un solo fischio da 80.000 persone. Tutti, con le famiglie in coro, grandi e piccini, che urlavano a squarciagola “buu”.
Qualcuno invoca leggi speciali. Come se le leggi non ci fossero già. Come se ci fosse una legge che permette di portare nello stadio petardi potentissimi. Entrano sempre e comunque quei petardi. La tessera del tifoso? Non sembra sia servita a molto. E il Daspo? Certo, impedisce ai più violenti di entrare allo stadio. Ma appena oltre il cancello, sono sempre loro a comandare, a decidere. E le cose, come a Roma ieri sera, accadono fuori dallo stadio, non dentro.
È una questione di ordine pubblico, certo. Ma non solo solo, non può esserlo. I capi delle curve vivono in simbiosi con le società, passano le vacanze dove le squadre vanno in ritiro, sono, in un certo senso, anche loro dirigenti. Organizzano, decidono, coordinano. Società e ultras si servono e si usano, da sempre. Poi, quando succede qualcosa di grave, fanno finta di non conoscersi.