Razzisti noi? Ma no, siamo solo goliardi
Domenica scorsa, quando è scattato il minuto di silenzio per le vittime di Lampedusa, i tifosi ultras del Verona, in trasferta a Bologna, hanno intonato «Io credo, risorgerò. Questo mio corpo vedrà il Salvatore!». Sono i fratelli minori di quelli che, durante un derby col Chievo di 16 anni fa, impiccarono un manichino nero e lo fecero penzolare dagli spalti accompagnandolo con la scritta «negro go away». Domenica sera l’allenatore del Verona, Mandorlini, ha detto che in quel canto non c’era nessun intento ironico. Già.
A Torino, i tifosi della curva juventina hanno interrotto il minuto di silenzio intonando forte l’inno di Mameli, come a dire, noi siamo italiani, i morti, quelli di Lampedusa, invece no. Poi, uno di loro, interpellato, ha detto che quell’inno serviva a ricordare allo Stato che i cittadini italiani sono discriminati e quando un imprenditore si suicida per la crisi nessuno si sogna di fare il minuto di silenzio o di chiedere il lutto nazionale.
Non c’è stata ovviamente nessuna sanzione. Come puoi sanzionare chi canta l’inno di Mameli o intona «Io risorgerò»? Verrà chiuso invece San Siro per la prossima partita del Milan perché a Torino quelli della curva rossonera in trasferta hanno intonato i soliti canti contro i napoletani. Cori e slogan lanciati anche dagli stessi ultras napoletani a Napoli. Dicono in pratica gli ultras del Napoli: «Non potete squalificare le curve per ciò che si canta o si urla. Se squalificate loro, squalificate anche noi». In sintesi: «Noi ci insultiamo quanto vogliamo, è la nostra libertà». Ciò che la procura federale imputa ad alcune curve è non solo la discriminazione razziale ma la discriminazione territoriale. Che non è così facile da stabilire. Quando scatta? E non hanno tutti i torti gli ultras dell’Inter quando dicono che esiste un partito, in Italia, che ha fatto a lungo della discriminazione territoriale la sua ragione d’essere.
Tra la Procura federale e le curve d’Italia (che, superando odi e guerre antiche, fanno blocco e minacciano per il prossimo turno di farsi squalificare in massa e quindi di far chiudere gli stadi con conseguenti notevoli perdite per le società) è iniziato un braccio di ferro che andrà avanti a lungo. Le curve di tutta Italia si stanno coalizzando. L’idea è quella di uno sciopero del tifo. «Voi chiudete il settore? Bene, noi allo stadio non entriamo più».
Tutto questo è solo la superficie. È da tempo che molte curve sono dominate da gruppi della destra radicale mischiati a elementi della criminalità organizzata. Lo sanno le società e lo sanno le forze di polizia. In curva si fanno affari, legati allo stadio (biglietti, trasferte, eccetera) ma non solo. Capi ultras sono spesso anche capetti piccoli e grandi di bande criminali. La politica si interseca poi in maniera strisciante. A Venezia, domenica scorsa, è stato sequestrato uno striscione che recitava: «Dopo Lampedusa? A casa tua». Era nelle mani di membri del gruppo Vecchi Ultras del Venezia a loro volta militanti di Veneto Fronte Skinheads.
Il problema è che molte curve di stadi tendono a dichiararsi quasi zona franca. Ci sono tre video che raccontano bene le dinamiche, spesso feroci, da curva. Il primo venne girato da una telecamera di sicurezza fuori da San Siro sei anni fa, quando dopo lo scioglimento della Fossa dei Leoni un nuovo gruppo divenne egemone nella curva rossonera stroncando qualsiasi forma di dissenso. Si vede nel video, allucinante per violenza e ferocia, il pestaggio di chi si era opposto all’escalation del nuovo gruppo.
Un altro video è quasi grottesco nella sua assurdità. C’è un capo ultras del Piacenza che minaccia dirigenti e giocatori. Un piccolo ducetto che farebbe ridere se non fosse tutto terribilmente serio.
Il terzo video mostra il pestaggio di un tifoso juventino durante Inter Juventus del 14 settembre scorso. Un gruppo di ultras interisti scavalca la parete divisoria e massacra di botte un tifoso avversario. Lì, a presidiare la zona ci dovrebbero essere gli steward. Dovrebbero, perché nel video non si vedono.
Certo che le curve ultras non sono solo questo, la realtà è molto più complessa. Così come è complessa la composizione delle curve stesse. Capi, sottocapi e sotto-sottocapi sono un centinaio al massimo, il resto sono ragazzini trascinati. Ma è una dato di fatto che da tempo le curve, grandi o piccole, non solo in serie A ma anche nelle serie minori, si segnalano per episodi di razzismo. Loro, i rappresentanti delle curve, respingono l’accusa: ma quale razzismo, dicono, la nostra è solo goliardia. L’aspetto più preoccupante è però che i club, intesi come dirigenti, hanno quasi sempre scelto di subire, di tacere, a volte di approfittarsi (quante volte un presidente che aveva bisogno di sostegno ha chiesto aiuto agli ultras).
In Germania il Borussia Dortmund ha vietato per tre anni l’accesso allo stadio a un gruppo di tifosi che, durante una partita contro il Werder Brema, aveva esposto uno striscione omofobo. In Inghilterra, due anni fa, il Chelsea pubblicò un comunicato in cui spiegava che non avrebbe più tollerato cori antisemiti da parte dei propri tifosi. In Italia siamo lontani anni luce. L’unico presidente di società che ha avuto il coraggio di mettersi contro gli ultras è stato Lotito, della Lazio. E infatti viene contestato ogni domenica e deve vivere costantemente sotto scorta. Per il resto è calma piatta. Anzi, dirigenti e calciatori partecipano, non si sa quanto volentieri, alle feste e alle iniziative degli ultras. Scelgono il quieto vivere. Hanno paura di ritorsioni. Oppure semplicemente temono di perdere tifosi fedeli e sempre presenti.
Le cose forse cambieranno quando dalle curve si alzerà il coro «Non ci sono negri italiani» e il resto dello stadio lo zittirà con una deflagrante, liberatoria, marea di fischi.