Il giorno in cui morì Tobagi
C’è un libro, uscito due anni fa a cura di Sergio Bianchi per Derive Approdi, che racconta la storia di una fotografia, celebre e drammatica. L’immagine (il libro si intitola proprio Storia di una foto) ritrae una figura coperta da un passamontagna che si piega sulle gambe, le braccia sono tese in avanti, la pistola sta sparando. Sullo sfondo c’è gente che scappa, qualcuno guarda, ci sono altri passamontagna, altre armi. È la foto simbolo del 1977: erano le 15.37 del 14 maggio di quell’anno, pieno centro di Milano, via De Amicis.
Due giorni prima, a Roma, durante una manifestazione indetta dai radicali per ricordare la vittoria del referendum sul divorzio, era stata uccisa Giorgiana Masi. La sera del 13 maggio a Milano ci fu una riunione dei collettivi autonomi. Bisognava organizzare un corteo per l’uccisione di Giorgiana Masi e che protestasse contro l’arresto di due avvocati di Soccorso Rosso, Nanni Cappelli e Sergio Spazzali. Discussero duramente, la maggioranza era decisa a fare una manifestazione in cui non dovesse accadere nulla. Non tutti erano d’accordo. Non era d’accordo soprattutto il collettivo autonomo Romana-Vittoria.
Il giorno dopo, quando il corteo fu all’altezza di via De Amicis, una voce urlò «Romana, fuori», lo si sente chiaramente in una registrazione audio di quel giorno. Saltarono fuori le pistole, spararono in tanti mentre il resto del corteo tentava di allontanarsi in fretta. Quello nella foto famosa è Giuseppe Memeo, gli altri del collettivo lo chiamavano “terrone”. Mesi dopo entrò nei Pac, quelli di Cesare Battisti: partecipò all’omicidio del gioielliere Torregiani. Dal Brasile Battisti scrisse una lettera ai giornalisti scaricando tutte le colpe di quell’omicidio su Memeo e su altri. Memeo rispose: «Per quei fatti ho pagato, non ho barattato la mia libertà con quella di altri».
Quel pomeriggio, in via De Amicis, una pallottola squarciò la visiera del casco di un poliziotto, Antonio Custra. Morì il giorno dopo. Il giudice Guido Salvini stabilì, anni dopo, che a sparare il colpo di 7,65 che uccise Custra fu Mario Ferrandi, lo chiamavano “coniglio” per via dei denti sporgenti. La figlia di Custra, Antonia, quattro anni fa ha voluto incontrarlo, sono andati insieme in via De Amicis. Ferrandi raccontò tutto, senza reticenze: «La verità giudiziaria dice che fui io a uccidere tuo papà. Non lo vidi cadere, non vidi nulla. Mi assumo tutta la responsabilità di ciò che accadde quel giorno». Lei disse: «Sono qui per mettere una lapide sul mio passato, per fare il funerale a mio papà». Antonia non era nata quando morì suo padre, la mamma era incinta di otto mesi.
Ci sono altre fotografie in quel libro. Ce n’è un’altra, soprattutto, che mette i brividi. Fu scattata in via Carducci, pochi minuti dopo che Custra era stato colpito. Ritrae un gruppo di ragazzi a volto coperto che dopo lo scontro a fuoco in via De Amicis si allontana verso piazza Cadorna. C’è una discoteca che brucia, il Pantea. Qualcuno corre, uno cammina tranquillo, ha una giacca, i pantaloni chiari e un berrettino in testa. Nella mano destra ha un fucile con il manico tagliato. Cammina mentre gli altri corrono, il fucile è bene in vista. È Marco Barbone. Aveva 19 anni allora. Due anni dopo Barbone fondò a Milano la Brigata XXVIII marzo: con Paolo Morandini, Daniele Laus, Manfredi De Stefano, Francesco Giordano e Luigi Marano, attese una mattina che Walter Tobagi, giornalista del Corriere della Sera, uscisse di casa per andare a prendere l’auto in garage. Lo assassinarono in una piccola via dietro parco Solari. C’è un’altra foto, che ha fatto la storia dolorosa di quegli anni. Tobagi è a terra, tra il marciapiede e un’auto, un rivolo di sangue si perde sul marciapiede bagnato. Pioveva, era la mattina del 28 maggio 1980.