La strage di Brescia, i nazisti e i piromani folli
Oggi inizia il processo d’appello per la strage di piazza della Loggia, a Brescia. 28 maggio 1974, in piazza era in corso una manifestazione sindacale contro il terrorismo fascista, la bomba esplose, in un cestino dei rifiuti, alle 10:12. Morirono otto persone, più di 100 rimasero ferite. Il 28 maggio 1974 è uno dei giorni che ha segnato la storia d’Italia. C’è una verità storica: fu una strage fascista, con infiniti depistaggi e complicità da parte di elementi dei servizi segreti, i servizi “deviati”, come ormai siamo abituati a chiamarli. Poche ore dopo la strage qualcuno diede ordine ai pompieri di ripulire con le autopompe: i reperti di esplosivo furono spazzati via prima che i magistrati potessero ordinare i rilievi. Scomparvero anche, misteriosamente, i reperti prelevati in ospedale dai feriti e dai cadaveri.
C’è una verità processuale, per ora: in primo grado gli imputati sono stati assolti, con la formula dubitativa dell’articolo 530 comma 2. Sono Francesco Delfino, ex generale dei carabinieri e agente dei servizi segreti; Carlo Maria Maggi, fascista veneto; Pino Rauti, uscito dal processo, ne è stata chiesta l’assoluzione dallo stesso pubblico ministero; Delfo Zorzi, fascista veneto oggi cittadino giapponese, vive a Tokyo, si fa chiamare Hager Roi, origine delle onde; Maurizio Tramonte, fascista di Ordine Nuovo, infiltrato dei servizi segreti.
Ci sono delle novità nel processo d’appello. In primo grado fu giudicata inattendibile la confessione del fascista pentito Carlo Digilio, ex collaboratore della Cia, morto nel 2005. Nuove testimonianze avvalorerebbero invece la sua confessione. C’è la testimonianza di un carabiniere, Fulvio Felli, che era incaricato di seguire Maurizio Tramonte e che darebbe nuovi elementi all’accusa. E poi c’è un nuovo nome, l’ha fatto un collaboratore di giustizia, Giampaolo Stimagliano. È il nome di un attivista fascista veronese che allora aveva solo 17 anni: avrebbe avuto un ruolo nella strage, sarebbe stato a Brescia il 28 maggio 1974. Il nome è quello di Marco Toffaloni. Il suo nome venne legato anche a quello di Ludwig, una sigla che evoca episodi crudeli e folli, compiuti in nome del fanatismo nazista e religioso.
Per Ludwig furono arrestati e condannati a 27 anni Wolfgang Abel, di nazionalità tedesca, e Marco Furlan, entrambi abitanti a Verona. Vennero presi il 4 marzo 1984 mentre tentavano di appiccare il fuoco alla discoteca Melamara di Castiglione delle Stiviere. Avevano iniziato a uccidere nel 1977, bruciando vivo, a Verona, un senzatetto che dormiva nella sua 127. Avevano poi assassinato preti, tossicodipendenti, dato fuoco a cinema a luci rosse (nel rogo del cinema Eros, a Milano, morirono sei persone). Accanto ai nomi di Abel e Furlan, durante le indagini, vennero fatti anche quelli di altri fascisti veneti. Tra cui quello di Toffaloni, soprannome Tomaten.
Il nome di Toffaloni saltò fuori anche a fine anni ottanta, legato a quello delle Ronde pirogene antidemocratiche. Gli obiettivi del gruppo erano la «distruzione dei simboli materiali dell’agglomerato sociale operaio piccolo-borghese mediante l’incendio dei suddetti; l’eliminazione di automezzi e motocicli vecchi e sporchi; la demolizione delle case dei pezzenti e dei baraccati, emarginati; la soppressione fisica di tutti gli esseri abietti, impediti, paraplegici, sottosviluppati, di tutti coloro che compromettono l’ordine sociale perfetto e completo dal punto di vista estetico». Queste le loro linee programmatiche, contenute in un documento intitolato “Piro Acastasi”. Follia pura, ma follia crudele. Racconta bene la loro storia Monica Zornetta, autrice di Ludwig, (Dalai editore) il libro più bello e completo che sia stato scritto sulla storia del gruppuscolo neonazista veronese.
All’inizio le Ronde pirogene antidemocratiche si concentrarono sull’incendio di autovetture: ne bruciarono 120. Poi decisero di passare a quelle che un aderente, il bolognese Luca Tubertini, chiamava le “macellerie”, e cioè le discoteche. Tubertini era in collegamento con Ludwig, e cioè con Abel e Furlan. Delle Ronde facevano parte anche altri militanti nazisti bolognesi, e poi due veronesi, Marco Toffaloni, appunto, e Curzio Vivarelli, insegnante di matematica in una scuola di Bolzano. Era collegato al gruppo anche Giovanni Gunnella (figlio del professore missino Pietro, ex ordinovista) a sua volta legato a Carlo Digilio, fascista di Ordine Nuovo e riferimento degli apparati dei servizi segreti americani.
C’è poi un altro collegamento, ancora più folle, ancora più assurdo, se possibile. Alcuni dei militanti delle Ronde pirogene e antidemocratiche erano anche adepti della setta Amanda Marga, un movimento induista fondato in India nel 1951 e che in teoria si sarebbe dovuto occupare della diffusione dello yoga tantrico ma che in Italia, in qualche modo, ebbe, fin dalla sua comparsa, una connotazione neonazista. Per il giudice istruttore Leonardo Grassi, Amanda Marga era un’organizzazione che perseguiva obiettivi «non soltanto filosofici e religiosi ma anche rivoluzionari, con una struttura formata non soltanto da monaci e adepti ma anche da un servizio d’ordine e da regole molto rigide a cui erano costretti gli adepti, con una simbologia nazista e una partecipazione vasta di ex appartenenti all’organizzazione neofascista di carattere eversivo Ordine nuovo».
Questo è il mondo, folle, fanatico, crudele, in cui si muovono i giudici di Brescia per cercare di ricostruire ciò che accadde la mattina del 28 maggio 1974. Sono storie che legate al passato ma che in qualche modo ci tengono inchiodati lì. Brescia, piazza Fontana, Italicus, questura di Milano e ancora, e ancora. I nomi dei presunti autori sono sempre gli stessi, la matrice è quella. Bisogna continuare a scavare, a fare processi, bisogna arrivare a una conclusione. Lo dobbiamo ai morti di allora e all’Italia, così come forse sarebbe diventata senza quella infame stagione che ricordiamo come “strategia della tensione”.