Alessandro Mathas, morto a otto mesi in un residence
La storia della morte di Alessandro Mathas è uno dei più brutti fatti di cronaca degli ultimi anni. Aveva otto mesi, arrivò in ospedale a Genova in braccio alla mamma, stravolta, la mattina del 16 marzo 2010. Era stato ammazzato di botte: i medici trovarono i segni di un morso e bruciature di sigaretta.
La sua ultima notte, Alessandro l’aveva passata in una stanza squallida di un residence di Nervi, sbattuto a piangere su un divano. In quella stanza c’erano sua mamma, Katerina, e un suo amico, Giovanni Antonio Rasero, broker marittimo. Erano fatti di cocaina, tanto da non capire più nulla, tanto da fare qualsiasi cosa. La Mathas e Rasero vennero arrestati, lei finì in cella con un’altra madre accusata di omicidio del proprio bambino, Elizabete Petersone, una ragazza lituana che ora sta scontando 16 anni. Come sempre accade, Katerine Mathas e Giovanni Antonio Rasero iniziarono ad accusarsi a vicenda. Il pm che indagò sul caso credette alla ragazza: lei raccontò di essere uscita dal residence per trovare altra cocaina. Una videocamera confermò, confermarono anche le testimonianze di pusher genovesi. Katerina disse di essere rientrata nella stanza stravolta e di essersi messa a dormire, accorgendosi che Alessandro non piangeva e respirava più solo dopo qualche ora. Sull’impronta di morso sul piede del bambino venne individuato il Dna di Rasero.
Dopo dieci giorni Katerina Mathas uscì dal carcere, iniziò uno scambio rabbioso e insistito su Facebook con chi la accusava (ne parlammo allora qui), postando decine di foto del suo bambino. In un autolesionistico gioco macabro, lei e Elizabete Petersone si scambiarono l’amicizia sul social network inviandosi reciprocamente foto dei loro bambini uccisi e promesse di solidarietà eterna. I giornali ci andarono a nozze.
Giovanni Antonio Rasero fu rinviato a giudizio per omicidio, Katerina Mathas per abbandono di minore con conseguenza la morte. Al processo di primo grado la giuria condannò l’uomo a 26 anni di carcere. Ma mandò anche un messaggio chiaro ai pm: non è possibile che la madre del bambino sia estranea. Indagate di nuovo, indagate meglio. Dalla cella all’esterno, Rasero e la Mathas hanno continuato a scambiarsi accuse e insulti. L’ex compagno della ragazza, Bruno Indovino, che quella notte con lei si era scambiato decine di sms scrisse agli avvocati di Rasero: “Ero con Katerina una sera a casa mia, a Rapallo, e lei era fuori di testa. Ha fatto la matta con il bambino, tanto che ho dovuto chiamare i carabinieri di Santa Margherita”. E poi: “A Rasero viene contestato l’episodio della cresta, ovvero di aver maltrattato il piccolo una settimana prima dell’omicidio, quando amici lo videro mettergli la testa sotto l’acqua e sentirono alcuni colpi contro il muro, come se lo avesse sbattuto contro. Io dico che non è stato lui”. Ora il processo d’appello ha assolto Rasero, si tornerà a discutere della posizione di Katerina Mathas.
C’è una storia simile, altrettanto crudele. Il 21 luglio 2005 a Roasio, in provincia di Vercelli, il 118 venne chiamato a soccorrere Matilda, una bambina di 22 mesi. L’ambulanza arrivò che era già morta, l’autopsia scoprì che a ucciderla era stato un colpo violentissimo nella schiena: Matilda aveva reni e fegato spappolati. La bambina era sola in casa con la mamma, Elena Romani, e il suo compagno, Antonio Cangialosi. Anche loro si accusarono reciprocamente: lei venne arrestata, lui uscì presto dall’indagine. In tre gradi di giudizio Elena Romani è stata assolta. Qualcuno ha ucciso Matilda, in casa c’erano solo la la madre e il suo fidanzato.
Così è per Alessandro Mathas. È morto a otto mesi, Giovanni Antonio Rasero è assolto, Katerina Mathas dice «di essere allibita per l’assoluzione». Faccio fatica a pensare che, a parte il bambino, in quella stanza di resdidence ci fosse qualcuno innocente.