Via Poma: processi veri e fiction
Giovedì prossimo, 24 novembre, comincia il processo d’appello per l’omicidio di Simonetta Cesaroni, avvenuto in via Poma, a Roma, il 7 agosto 1990. Poi c’è un’altra notizia, più piccola, marginale, ma che ha creato un bel po’ di scompiglio: sei giorni dopo l’inizio del processo, e quindi in pieno svolgimento, Mediaset manderà in onda una fiction su quella storia, Via Poma, si dovrebbe intitolare. Il processo di primo grado si è concluso, un anno fa, con la condanna a 24 anni di carcere di Raniero Busco, che all’epoca del delitto era il fidanzato della ragazza uccisa. La storia di ciò che avvenne in via Poma, quel giorno d’estate, è restata per oltre 20 anni un mistero. Simonetta lavorava negli uffici dell’Aiag, Associazione italiana alberghi della gioventù. Il 7 agosto andò a lavorare come al solito, i genitori l’aspettavano a casa per le otto di sera, alle nove e mezza non vedendola arrivare diedero l’allarme.
Simonetta viene trovata seminuda, sul pavimento, colpita con coltellate al petto, alla giugulare, al fegato, agli occhi. Sul seno il segno di un morso. Le stanze dell’Aiag sono in ordine, sulla maniglia c’è del sangue. Le indagini puntano sul portiere dello stabile di via Poma 2, Pietrino Vanacore: sui suoi pantaloni vengono trovate macchie di sangue. Vanacore resta in carcere 26 giorni, le analisi stabiliscono poi che quelle macchie di sangue sono sue (soffriva di emorroidi). Due anni dopo nell’inchiesta entra un altro personaggio, Federico Valle, e ci entra in maniera assurda. Un signore austriaco, Roland Voeller, va alla polizia e racconta una strana storia: dice che un giorno era al telefono con con un amico quando, per un contatto, nella telefonata è entrata la voce di una sconosciuta. L’austriaco e la sconosciuta fanno amicizia, si sentono più volte. Il 7 agosto la donna dice all’uomo di essere preoccupata perché il figlio, che soffre per il divorzio dei genitori, è andato a trovare il nonno, Cesare Valle, che abita in via Poma 2, e ancora non è tornato. Il giorno dopo la donna racconta a Voeller che il figlio è tornato a casa sconvolto e sporco di sangue. I magistrati indagano, nell’inchiesta entra nuovamente anche Vanacore che, viene ipotizzato, sarebbe il complice di Valle. Ma è solo fumo, indizi concreti non ce ne sono. Si scoprirà poi che Voeller è un truffatore. Le indagini rallentano poi sembrano entrare in una zona morta.
Passano gli anni, di tanto in tanto si torna a parlare di via Poma. Si tira in ballo un possibile coinvolgimento dei servizi segreti (gli uffici dell’Aiag sarebbero in realtà una copertura). E salta fuori anche la banda della Magliana che in qualche modo viene sempre nominata, a Roma, quando c’è un delitto. Nel 2005 arriva la svolta vera grazie a quelle che vengono chiamate “le nuove tecniche investigative”, e cioè le analisi sul Dna. Si scopre che il Dna di Raniero Busco è compatibile con quello trovato sul reggiseno della ragazza. Lui ribatte: «Certo, eravamo fidanzati, qualche giorno prima eravamo stati insieme». «Sì», risponde la sorella di Simonetta Cesaroni, «ma il giorno in cui è stata uccisa, mia sorella aveva messo biancheria pulita». Le analisi indicano anche che l’arcata dentaria di Raniero è compatibile con quella che ha lasciato il morso sul seno della ragazza uccisa. Le perizie stabiliscono anche che il sangue sulla maniglia dell’ufficio dell’Aiag è una commistione del sangue di Simonetta e di sangue maschile, quest’ultimo è per alcuni fattori compatibile con quello di Busco. All’epoca dell’omicidio l’ex fidanzato venne ovviamente interrogato: il suo alibi fu giudicato convincente. Il fatto è che ora di quel rapporto di polizia non c’è più traccia e l’alibi di Busco non sembra più così solido. Il processo di primo grado inizia nel febbraio del 2010. Il 9 marzo Pietrino Vanacore viene trovato morto: si è legato una caviglia a un albero e si è lasciato annegare in mare, a Torricella, nel tarantino, dove viveva ormai da tempo. Il 20 marzo avrebbe dovuto deporre al processo, lascia scritto un biglietto: “20 anni di sofferenze e di sospetti ti portano al suicidio”. Il 26 gennaio 2011 il processo si conclude con la condanna di Busco a 24 anni di carcere. Ora parte l’appello.
Questa è la storia, parecchio riassunta, di una delle vicende italiane di cronaca più misteriose. Poi c’è l’altra notizia, quella della fiction. L’ha girata Roberto Faenza, ma il punto non è la bravura del regista o degli attori. Le domande sono altre. Che storia racconta? Da quale punto di vista? Come è presentata la figura di Raniero Busco? Faenza e la produzione assicurano che la fiction non influenzerà minimamente opinione pubblica e giuria. Ma perché mandarla in onda a processo in corso? Basta un’immagine, una sensazione, per pendere da una parte o dall’altra. I legali di Raniero Busco si oppongono alla messa in onda della fiction il 30 novembre prossimo. Difficile dar loro torto.