Elisa Claps, una storia italiana
Ci sono storie, in Italia, segnate da depistaggi, insabbiamenti, coperture. Storie magari piccole, microstorie che rotolano parallele alle grandi storie nere di questo Paese: piazza Fontana, Ustica, stazione di Bologna, l’elenco è lungo. Ecco accanto a questi capitoli che hanno segnato un’epoca c’è la storia di una piccola ragazza di una città del sud, Potenza: si chiamva Elisa Claps. La sua storia è quella del suo assassino non è solo il racconto di un omicidio, è anche altro, molto altro. Ieri Danilo Restivo è stato condannato a 30 anni di reclusione per aver assassinato quella ragazza, quasi 18 anni fa. Non era in aula al processo: sta scontando la pena dell’ergastolo, in Inghilterra, per l’omicidio di una donna di 40 anni, Heather Barnett. La sua condanna chiude una parte di questa storia. Solo una parte.
Elisa Claps aveva 16 anni, scomparve a Potenza il 12 settembre 1993. Uscì di casa la mattina per andare a messa nella chiesa della Santissima Trinità. Disse anche che aveva un appuntamento con un ragazzo. Le amiche spiegarono poi che quel ragazzo era Danilo Restivo, uno che ogni tanto prendeva di mira qualche ragazza e la tempestava con telefonate mute, in sottofondo la colonna sonora di “Profondo Rosso”. Il pomeriggio stesso della scomparsa di Elisa, Restivo andò al pronto soccorso, aveva un taglio profondo alla mano, disse di esserlo fatto cadendo mentre attraversava un cantiere in città. Il 13 settembre un poliziotto incaricato delle indagini parlò con le amiche di Elisa, scrisse in un rapporto che c’era la possibilità che Elisa fosse stata rapita da Restivo “a scopi di libidine”. Chiese l’autorizzazione al magistrato di poter sequestrare gli abiti indossati da Restivo il giorno della scomparsa, il magistrato non firmò la richiesta. La casa di Restivo non venne perquisita né venne perquisita la chiesa della Santissima Trinità. Il parroco della chiesa, don Mimì Sabia, il giorno dopo la scomparsa di Elisa, chiuse il portone e partì per qualche giorno di cure termali. Al ritorno il poliziotto gli chiese se conosceva bene Danilo Restivo, lui rispose «no, solo di vista». Non era vero: Restivo era il factotum di don Mimì, aveva le chiavi dell’oratorio. E questo a Potenza, lo sapevano in tanti.
Come sempre accade in questi casi, arrivarono segnalazioni sulla presenza di Elisa in ogni parte d’Italia e all’estero. Si fecero ipotesi su ipotesi, anche, naturalmente, che la sua fosse una fuga volontaria. In realtà, nessuna la cercava.
Nel 1997 un agente del servizio segreto civile, il Sisde, raccolse alcune voci da una serie di informatori, prevalentemente nell’ambiente ecclesiastico. Scrisse un’informativa in cui diceva che Elisa Claps era stata uccisa il giorno stesso della sua scomparsa e che il corpo era stato nascosto “in un luogo appartato ma molto frequentato”. Quel dossier scomparve nel nulla. Intanto tre anni prima Danilo Restivo era stato anche processato: aveva infatti mentito dicendo di non aver visto Elisa quel 12 settembre. Davanti ai giudici dovette ammettere di averla vista, in effetti, in piazza. Poi, disse, la ragazza era entrata in chiesa e lui se n’era andato. Nemmeno allora, però, a qualcuno saltò in mente di andare a perquisire i locali della chiesa. Durante il processo, tra l’altro, era venuta alla luce una particolare e terrificante abitudine di Restivo: se ne andava in giro sugli autobus a tagliare di nascosto ciocche di capelli alle ragazze. Restivo se la cavò con una condanna lieve per falsa testimonianza. Se ne andò dall’Italia, si trasferì a Bournemouth, in Inghilterra. Il 12 novembre 2002, Heather Barnett, una sarta 40enne che abitava davanti all’abitazione di Restivo, fu trovata morta nella sua vasca da bagno. Era stata massacrata a colpi di forbice, nel pugno l’assassino le aveva messo una ciocca di capelli femminili.
La polizia inglese puntò subito su Restivo, anche in quel caso però le indagini non portarono a nulla.
Intanto a Potenza la famiglia Claps continuava a battersi, praticamente da sola, perché qualcuno riprendesse in mano le indagini. Gildo Claps, il fratello di Elisa, continuava a fare apertamente il nome di Danilo Restivo. E a denunciare coperture da parte soprattutto dell’ambiente ecclesiastico di Potenza.
Il 17 marzo del 2010 un gruppo di operai salito in un locale del sottoteto della chiesa della Santissima Trinità, trovò un corpo mummificato. Era quello di Elisa: era sempre stato lassù, sopra la chiesa, mentre sotto la vita scorreva. Mentre sotto don Mimì Sabia diceva messa.
L’autopsia accerterà poi che Elisa era stata uccisa con 13 colpi di lama, forse una forbice. E che poi l’assassino aveva tagliato, con precisione, gli indumenti intimi della ragazza e alcune ciocche di capelli. Accanto al corpo fu trovato anche un bottone rosso, le cronache fantasticarono molto su questo fatto, parlando di un abito cardinalizio, in realtà la provenienza di quel bottone non è mai stata accertata. È accertato invece che in quel sottotetto negli anni ci salirono in tanti: ci andavano ragazzi e ragazze di Potenza per appartarsi, c’era anche un materasso in un angolo. Il corpo di Elisa era qualche metro più in là, coperto alla buona da calcinacci.
È una storia incredibile a rimetterla insieme oggi. Perché le indagini hanno scoperto anche che il 17 marzo è solo la data ufficiale del ritrovamento del corpo. Un viceparroco delle chiesa, don Wagno, qualche mese prima era salito nel sottotetto chiamato da due addette alle pulizie: le donne fecero vedere il corpo a don Wagno. Lui poi ammetterà, candidamente, di aver telefonato all’arcivescovo per avertirlo della cosa «ma», disse agli inquirenti, «l’arcivescovo era occupato, non venne al telefono e io poi mi scordai della faccenda». Così disse: si era scordato di aver trovato un cadavere nel sottotetto della chiesa.
Don Wagno ora è in Africa, don Mimì Sabia è morto qualche anno fa. Nel frattempo Danilo Restivo era stato arrestato dalla polizia inglese. Durante le indagini sull’omicidio Barnett il ragazzo era stato messo sotto sorveglianza. Lo bloccarono dopo che era stato visto appostarsi in un parco di Bournemouth, nascosto dietro un albero a seguire le mosse di una donna che correva lungo i sentieri. In auto gli trovarono, in una borsa nera, due paia di forbici di diverse dimensioni, foderine per i sedili dell’auto, un grosso coltello, un paio di Nike di ricambio, una camicia identica a quella che stava indossando. Quel giorno, era maggio, Restivo aveva addosso una pesante giacca invernale e copripantaloni impermeabili. Un abbigliamento che la polizia giudicò «eccessivo date le condizioni atmosferiche».
Questa è la storia, molto riassunta. Il processo che ha portato alla condanna italiana di Restivo si è tenuto con rito abbreviato. La famiglia Claps, parte civile, non ha potuto chiamare tutti quei personaggi, tra inquirenti dell’epoca e membri della curia potentina, che avrebbe voluto. Andranno avanti Gildo Claps e sua mamma Filomena: vogliono che le coperture e i depistaggi saltino fuori, che le responsabilità vengono accertate. Anche in questa storia si è parlato molto di massoneria che in Italia non è solo il ricordo della P2 di Licio Gelli. Dice Gildo Claps: «Se 18 anni fa si fosse indagato sul serio, Heather Barnett non sarebbe mai morta». A Potenza la chiesa della Santissima Trinità è ancora chiusa.