I giorni di Genova
Michael Covell lo sa di essere vivo per miracolo. Fuori dalla scuola Diaz di Genova, la notte del 21 luglio 2001, lo picchiarono a intervalli: una volta, poi un’altra e un’altra ancora. Nel frattempo centinaia di poliziotti stavano tentando di sfondare il portone della scuola. Nell’attesa massacrarono quell’inglese alto un metro e sessanta, tanto leggero da essere sollevato dai calci che arrivavano. Lo portarono all’ospedale San Martino, molti pensavano che fosse morto. Un calcio al petto gli aveva rotto una mezza dozzina di costole comprimendo l’intera parte sinistra della sua gabbia toracica. Colpi alla schiena causarono lesioni alla spina dorsale. Con un calcio in bocca perse 12 denti. L’ultima cosa che ricorda di aver sentito è un agente che urlava agli altri «basta, basta». Quella notte al San Martino arrivavano ambulanze una dietro l’altra, medici e infermieri non avevano mai visto nulla di simile, non l’hanno scordato e non lo scorderanno mai.
Era dieci anni fa in questi giorni. I giornali parlavano da settimane di quella che sarebbe stata la “guerra di Genova” del G8. A rileggere oggi si trovano passaggi deliranti. Si disse a un certo punto che dall’alto i manifestanti no global avrebbero lanciato sulla cosiddetta zona rossa centinaia di palloncini con sangue infetto. Si parlò di fionde da guerra in arrivo da qualche parte d’Europa. I giornali pubblicavano. Ora si sa che erano veline messe in giro dai servizi segreti, i giornali non si preoccuparono di avanzare qualche dubbio. Dall’altra parte, nel loro delirio di protagonismo, i leader delle tute bianche non facevano nulla, ma proprio nulla, per abbassare il livello di tensione. Si prestavano a un gioco pericoloso. Quella finta guerra dichiarata («Oggi è il giorno 1 dell’anno 1 dell’assedio all’Impero», disse Luca Casarini) diventerà tragicamente vera.
C’era gente da tutta Europa, da tutto il mondo. Giovedì 19 luglio fu una festa, cantò Manu Chao, ci fu la sfilata dei migranti: nessuna tensione, tutto liscio. Il 20 si scatenò l’inferno, il 21 l’inferno divenne legge. C’era una sorta di accordo tra le tute bianche, e cioè i centri sociali di tutta Italia, quelli più dialoganti, e la Questura. Il corteo sarebbe arrivato fino alla zona rossa, si disse che ci sarebbe stata anche un’invasione simbolica da parte di un manifestante. Le prime file delle tute bianche avevano le protezioni a braccia e teste, si sapeva che qualche manganellata sarebbe volata. Poi tutti indietro.
Ma spuntarono quelli del blocco nero, i black block. Ancora oggi quando i giornali devono individuare i violenti nei cortei, parlano di black block. Erano 300-400, i “neri”: gruppi anarchici italiani, venivano dai centri sociali che non accettavano l’egemonia delle tute bianche. E poi dall’estero: svizzeri, spagnoli, del nord Europa. Spaccarono tutto. La polizia non li fermò ma non ci fu nemmeno uno straccio di servizio d’ordine del corteo dei centri sociali a fermarli. Sarebbe bastato poco: un buon servizio d’ordine li avrebbe ridimensionati. Ci provò qualcuno dei Cobas, volò qualche sberlone ma servì a poco.
Contemporaneamente una colonna di blindati dei carabinieri sbagliò percorso, si infilò a metà del corteo partito dallo stadio. L’ordine del comando era però non attaccare, tenersi calmi. Non si sa perché, non si sa che cosa accadde, ma quell’ordine venne ignorato, i carabinieri spezzarono in due il corteo, iniziarono scontri violentissimi, la catena di comando si perse in mille rivoli. Gli ordini divennero contraddittori, non si capì più nulla, la situazione sfuggì di mano. C’erano tre parlamentari del centrodestra, dell’allora AN, che giravano per le sale comando. Le immagini di che cosa accadde si trovano ovunque su Youtbe, alcuni documenti fanno stare male ancora oggi, con i “neri” che si muovono in tutta tranquillità per le strade di Genova e poco lontano il delirio. Fino a sera, fino a piazza Alimonda, fino a Carlo Giuliani.
Il giorno dopo fu peggio, saltò ogni regola, ogni controllo. In corteo quel giorno, il 21 luglio, c’erano centinaia di migliaia di persone: era la manifestazione finale, la gente era arrivata in treno da tutta Italia. Gente normale per lo più, assolutamente pacifica. Iniziò subito: i manganelli Tonfa, micidiali, picchiarono a caso, donne e uomini. Picchiarono con brutalità. Tanti venero arrestati, finirono nella caserma di Bolzaneto. I racconti fanno paura: umiliazioni e botte mentre alcuni poliziotti facevano suonare sul telefonino “faccetta nera”.
Alla Diaz arrivarono verso le 23.30. Era il centro stampa dei manifestanti. Ci sono immagini girate da ragazzi che erano nella scuola di fronte, dove c’era la sede del Genova Social Forum. Ci sono centinaia di poliziotti che si ammassano contro il portone, sembra una scena d’assedio da “Il signore degli anelli”. Poi l’ingresso, dietro le finestre illuminate, i poliziotti si muovono e picchiano, dalla scuola di fronte qualcuno urla disperato “The world is watching you”. Poi la gente portata fuori in barella. Tanti, uno dietro l’altro. E le immagini da day after riprese nella scuola, con le strisciate di sangue sui muri. È tutto su Youtube, tutto documentato.
Ci sono stati processi, anche Michael Covell è tornato a Genova. Alcune responsabilità sono state accertate. Perché vennero dati quegli ordini, chi li diede esattamente, non si è mai capito. Negli anni recenti mai come in quei giorni di Genova la democrazia italiana si incrinò, barcollò, perse senso e coscienza. Quelle ore furono di democrazia sospesa. Sono passati dieci anni, è ora di ripensare a quei giorni, di riparlarne, di assumersi responsabilità, da parte di tutti: di chi gestiva l’ordine pubblico e di chi, dalla parte di chi protestava contro il G8, non seppe capire che cosa sarebbe successo, non riuscì a controllarlo e a fermarlo.
Bisogna parlare di quei giorni, dimenticare non è possibile.