Una che non si arrende
Carla Verbano è una che non si arrende. Oggi ha 86 anni, 31 anni fa uccisero suo figlio, Valerio. Da allora lei cerca di capire chi fu ad ammzzare suo figlio nella stanza accanto a quella in cui lei era immobilizzata. Valerio Verbano fu ucciso in maniera infame e crudele, che non aveva precedenti nell’infamia e nella crudeltà degli anni di piombo. Valerio era uno di sinistra, militante dell’autonomia operaia, frequentava un istituto romano, l’Archimede. Una mattina, e sono 31 anni oggi, il 22 febbraio 1980, mentre lui era a scuola (in realtà non c’era andato, ma i genitori credevano di sì), alla porta della sua casa, a Montesacro, suonarono tre ragazzi. Si fecero aprire dicendo «Siamo amici di Valerio». Erano incappucciati, legarono Carla Verbano e suo marito Sardo, li imbavagliarono e li gettarono sul letto. Poi aspettarono. Valerio tornò a casa, posteggiò la Vespa 50 e salì. Carla e Sardo sentirono rumori di cose che si rompevano, poi uno sparo, uno solo. Quando arrivò un vicino di casa e liberò Carla e Sardo, trovarono Valerio riverso sul divano, disse «mamma aiuto, aiutami mamma», e basta. Gli avevano sparato alla nuca.
Vennero fatti gli identikit con l’aiuto di chi aveva visto gli assassini uscire dal portone: erano anche loro giovanissimi, come Valerio. Una rivendicazione arrivò dai Nar, quelli di Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, fascisti diciottenni che in quegli anni misero a ferro e fuoco Roma e non solo. Carla Verbano di politica non sapeva nulla, non aveva capito nulla di quegli anni. Iniziò a scavare, a cercare di capire, incontrò amici e poliziotti. Ha raccontato tutto in un libro, Sia folgorante la fine. Ha detto Carla Verbano: «L’inizio deve essere folgorante, Carla, mi dicono quelli ai quali parlo del libro. Capirai, folgorante, alla mia età. Io come inizio ho scelto la cosa più innocua che ci sia, un sogno. Perché quando mi sveglio, ogni mattina da trent’anni, voglio tutt’altro: sia folgorante la fine, di questa storia».