Vermicino e l’Italia intorno 29 anni fa
Lo so che tanti detestano gli anniversari, le ricorrenze. Tanti sbuffano. Ci sono però date a cui ci accorgiamo di essere in qualche modo legati. È quando, passati anni, ricordiamo esattamente che cosa stavamo facendo, come eravamo. E così io mi ricordo, e me lo ricordo bene, il giorno in cui scoprii che esisteva, a due passi da Roma, un posto che si chiamava Vermicino. E che in giro per le campagne c’erano buchi brutti e profondi, i pozzi artesiani.
Il 10 giugno di 29 anni fa, verso sera, un bambino di sei anni cadde in un pozzo artesiano, vicino a casa. Si chiamava Alfredo Rampi, da quel giorno tutti l’hanno chiamato Alfredino. Nella foto passata dai telegiornali sorrideva e aveva una canottiera. Io non so come tutto cominciò, la leggenda dice che un giornalista del Tgr, l’11 giugno, vide un lancio Ansa che parlava di questo bambino intrappolato là sotto, sembrava che lo stessero per tirare fuori. Avvertì il direttore del Tg1 che decise di fare un collegamento alla fine del telegiornale. Il direttore era Emilio Fede, disse anni dopo che quella storia gli sembrò «un asso nella manica, una cosa da girare in positivo, per concludere bene il telegiornale» (L’asso nella manica era un vecchio film americano che raccontava una storia simile). Anche il Tg2 si collegò, in studio c’era uno bravo, Giancarlo Santalmassi (forse è nostalgia, allora sembrava bravo perfino Emilio Fede). Doveva durare un attimo, credevamo che da un momento all’atro Alfredino sarebbe stato tirato fuori. Non fu così, i pompieri avevano fatto la cosa più stupida del mondo facendo scendere una tavoletta di legno a cui il bambino doveva aggrapparsi. La tavoletta si incastrò, fu un disastro. Arrivarono giovani speleologi ma i pompieri li mandarono via: era arrivata la Tv, doveva essere lo Stato a salvare il bambino.
Finì che quel collegamento con Vermicino andò avanti, e avanti, e avanti ancora. Vicino al pozzo artesiano c’erano i pompieri e la mamma e il papà di Alfredino. E davanti alla Tv sempre più gente. Io studiavo per la maturità, andai a ripetizione quel giorno e la professoressa aveva la TV accesa, tutti l’avevano accesa. Nel pomeriggio del 12 giugno a Vermicino arrivò anche il presidente Pertini, Alfredo era là sotto da 46 ore. Fu scavato un pozzo parallelo ma quando i pompieri bucarono la parete convinti di poter prendere il bambino e liberarlo si accrosero che la trivellazione l’aveva fatto scivolare ancora più sotto, a 60 metri. Erano tutti concitati, tutti agitati. La gente attorno e questi grandi fari a illuminare, sembrava un enorme set ma nessuno recitava. Un pompiere parlava nel buco, parlò continuamente non smise un attimo, diceva «Stai tranquillo, ora ti tiriamo fuori». C’era un signore con una giacca chiara, era il capo dei pompieri, si chiamava Elveno Pastorelli. L’angoscia saliva, saliva, saliva. Su Youtube si trova la registrazione de “La storia siamo noi” dedicata a quei giorni. C’è un punto, nel terzo spezzone, in cui i soccorritori calano giù un microfono. Si sente la voce di Alfredo che dice «mamma, mamma, mamma». E poi «Basta, basta». Come se implorasse «Smettetela di fare i cretini là sopra, ora tiratemi fuori». Si sta male a sentire quella vocina, si sta male davvero.
C’è un bel libro di Massimo Gamba, uscito tre anni fa, che racconta tutta quella storia e commuove.
Dicono che quella diretta infinita da Vermicino fece dimenticare agli italiani ciò che era accaduto solo pochi giorni prima: il 21 maggio era stata resa pubblica la lista della loggia Propaganda 2, un elenco di oltre 900 nomi. E qualcuno di loro è ancora lì. Il governo Forlani si era dimesso cinque giorni dopo, poi toccò a Spadolini. Il 13 maggio Alì Agca averva sparato al Papa. Ma è vero, in quelle ore nessuno ci pensava più. Quella notte da ogni finestra veniva la stessa luce, tutte le Tv rimasero accese. Vi ricordate, era l’epoca in cui le annunciatrici dicevano «Vi raccomandiamo di moderare il volume del vostro televisore…», perché d’estate con le finestre aperte ci si dava parecchio fastidio. Quella sera però tutti ascoltavano la stessa cosa, tutti guardavano la stessa storia. A pensarci ora sembra pazzesco che non siano riusciti a tirarlo fuori, a salvarlo.
A un certo punto calarono un volontario magrissimo, 60 metri a testa in giù. Si chiamava Angelo Licheri, faceva il tipografo. Arrivò a toccare Alfredo, gli prese le mani ma scivolarono via per il fango. Ha passato la vita a pensare a quelle mani che sfuggivano. Ci provò anche un altro. E poi capirono tutti che Alfredo sarebbe rimasto là sotto. Fu detto dopo 60 ore di diretta, lo spiegò un medico: «Abbiamo purtroppo la ragionevole certezza che Alfredino Rampi sia morto». Giancarlo Santalmassi disse: «Volevamo vedere un fatto di vita e abbiamo visto un fatto di morte. Ci siamo arresi, abbiamo continuato fino all’ultimo. Ci domanderemo prossimamente a lungo a che cosa sarà servito tutto questo, che cosa abbiamo voluto dimenticare, che cosa ci dovremmo ricordare, che cosa dovremmo amare, che cosa dobbiamo odiare. È stata la registrazione di una sconfitta, purtroppo: 60 ore di lotta invano per Alfredo Rampi».
Il corpo di Alfredo fu recuperato l’11 luglio 1981, 28 giorni dopo la sua morte.
In quei giorni di giugno nacque la Tv del dolore. Quell’anno alla maturità diedero un tema sui mezzi di comunicazione di massa perché tutti avevano capito che era accaduto qualcosa di nuovo, che la televisiione da allora sarebbe stata un’altra cosa. Nacque anche l’idea della Protezione civile, in quei giorni. Il primo a dirigerla fu Elveno Pastorelli, il capo dei pompieri. Tanti anni dopo su questa storia i Baustelle hanno scritto una canzone, si chiama “Alfredo”. Dice: “Un pezzetto bello tondo di cielo d’estate sta sopra di me…” E poi “Pertini, Wojtyla, la P2”.
Quel pozzo artesiano ora non c’è più, a Vermicino è cambiato tutto, c’è un monumento: Alfredo tende una mano verso l’alto.
Dopo la maturità, con gli amici andammo in vacanza in Francia, in auto. Nel bagagliaio avevamo un pallone, dove ci fermavamo lo tiravamo fuori: finiva dappertutto, nei fossati, in mare, nei cespugli, nei fiumi. Lo recuperavamo sempre, iniziammo a chiamarlo “Alfredino”. Quando l’ho raccontato, anni dopo, mi hanno detto che eravamo cinici. È vero, forse. Ma era anche una dimostrazione d’affetto, noi ad Alfredino volevamo bene. Quel pallone lo recuperammo sempre e tornò in Italia con noi.