Un partito così si può anche buttare
Una cosa che si è sempre pensata e detta di Matteo Renzi – e per qualcuno sarebbe una virtù, non un difetto – è che il governo sia l’unica dimensione che realmente gli interessi, convinto che invece il partito (e il Pd in particolare) debba essere poco più di uno strumento, il famoso comitato elettorale, e comunque non meritevole della sua attenzione prevalente, delle sue preoccupazioni, fin da prima di arrivare a palazzo Chigi.
Se fosse davvero così – e molti segnali confermano l’impressione – non ci sarebbe nulla di male. Vorrebbe semplicemente dire che Renzi, con molte buone ragioni, ritiene irrecuperabile il modello di partito come comunità organizzata sul territorio, luogo di elaborazione di politiche e di mobilitazione a sostegno di campagne e di riforme.
Il problema che emerge dallo scandalo di Roma – conferma di altri segnali analoghi – è che nella politica contemporanea effettivamente un partito può non essere più indispensabile epperò, continuando a esistere e a produrre ceto dirigente locale e nazionale, può causare molti gravi danni. Anche a una leadership come quella di Renzi. Ciò che è successo a Roma è ormai abbastanza chiaro, eppure non appare facilmente rimediabile. Nessuna ulteriore legge cancellerà la zona grigia che da sempre è il terreno di incontro e di intreccio tra la politica, l’amministrazione e gli interessi privati, soprattutto se incaricati di erogare servizi pubblici come nel caso delle cooperative dell’ormai famoso Buzzi. La giustizia lavora bene, colpisce in tempo quasi reale rispetto ai reati. Ma il danno di credibilità, in questo caso per il Pd, rimane gravissimo. Dal loro punto di vista fanno bene i Cinquestelle a precipitarsi in Campidoglio per rimarcare un punto di diversità.
Certo, come Europa – il giornale che dirigo – avverte ormai da tanto tempo, Roma è un caso particolarmente grave, per l’atavica abitudine dei partiti di incistarsi nelle pieghe delle amministrazioni. Ciò che ha fatto la destra al potere è inarrivabile per dimensioni e sfrontatezza. Ma nessuno del gruppo dirigente democratico può liberarsi di una quota di responsabilità, non foss’altro per l’incapacità di tagliare via rami del proprio partito chiaramente malati.
La conseguenza più grave di questa inanità è che qualsiasi procedura di tipo elettorale – congressi, primarie, selezione dei candidati, preferenze – appare macchiata e inattendibile a priori. Come potrebbe essere altrimenti, in una città dove solo un terzo dei circoli registrati risulta svolgere una effettiva attività politica? Perfino in era “renziana” è stato dato di assistere a scene raccapriccianti di orientamento del voto: che sorpresa può destare allora la fiorente industria organizzata dai registi del Mondo di mezzo?
Giustamente ora si indignano e promettono tabula rasa Ignazio Marino, Matteo Orfini, Roberto Morassut, altri. Del resto, non possono non aver avuto esperienza diretta e ravvicinata della realtà del loro partito. Ma che cosa pensano effettivamente di poter fare? Che cosa pensa e vuole fare Matteo Renzi? Disboscare le municipalizzate, come promette ora in verità non per la prima volta, è una parte della soluzione. Il dimagrimento degli enti locali è un’altra parte (le stesse cronache criminali raccontano di un “sistema” che va in sofferenza quando rallenta il flusso di denaro pubblico). Ma la tentazione grossa è un’altra. Inevitabile prenderla in considerazione: la progressiva (o rapida) liquidazione del partito dei circoli, degli iscritti, delle tessere. È un’ipotesi che merita di essere considerata senza alcuna demonizzazione. A patto di porsi la domanda seguente: come altrimenti si organizza la democrazia, si cerca il consenso, si seleziona la classe dirigente? Se davvero House of Cards è un testo di riferimento per il presidente del consiglio, come dicono, sappiamo che anche da quelle parti un Carminati e un Buzzi avrebbero trovato la strada d’accesso alle stanze del potere.