Chi risponde agli elettori delle riforme?
La frase di Matteo Renzi suona ruvida, dietro però c’è tutto il senso politico del momento. Quando dice «non ho preso il 40,8 per cento per lasciare il paese in mano a Corradino Mineo» esprime la consapevolezza che una finestra di opportunità si è spalancata adesso, dopo il 25 maggio, e non rimarrà aperta a lungo.
Le elezioni in effetti hanno consegnato al Pd una grande forza politica e un mandato imperativo a trasformare in realtà le riforme avviate, ma in persistenza di un quadro parlamentare difficile, quando non addirittura sfavorevole.
La prova più importante per Renzi, l’hanno notato tutti, consiste proprio nel colmare il gap che esiste tra la spinta ricevuta dagli elettori nel 2014 e i rapporti di forza parlamentari ereditati dalla sconfitta del 2013. Per recuperare questo divario – in sostanza, per non fallire nella missione che si è assegnato – Renzi non può fare altro che spendere il consenso popolare per superare gli ostacoli che di volta in volta trova davanti.
Questo è tanto più vero adesso che Forza Italia evapora giorno dopo giorno, come partito e come partner per le riforme istituzionali: le sue difficoltà la rendono imprevedibile, più esigente. Il quadro parlamentare si fa incerto. E più rischioso, per un presidente del consiglio che ha preso pubblicamente con gli elettori impegni che devono diventare realtà proprio nelle aule di camera e senato.
La grandissima parte del Pd, si fa carico di questa difficile impresa, il cui eventuale fallimento ricadrebbe su tutti. Toccato il 40,8 per cento, distinzioni tra Renzi, i renziani e gli altri non hanno più senso agli occhi del cittadino normale.
Dopo decine di assemblee, riunioni, e dopo aver corretto più volte i testi di riforma, sul tema della riforma del senato rimane irriducibile l’opposizione di un gruppo di parlamentari. È sacrosanto che si manifesti. Ma è ingiusto che possa da sola impedire al Pd di proseguire nel tentativo che ha deciso di fare, e sul quale verrà giudicato dagli italiani.
Il nocciolo della spiacevole questione Mineo è tutto qui: non ci si sarebbe dovuti neanche arrivare. Se il senatore (che peraltro non ha condiviso praticamente nessuna delle decisioni importanti prese dal Pd nella legislatura, fin da subito, ben prima che arrivasse Renzi) non se la sentiva di agevolare in commissione il varo del testo, per poi votare secondo coscienza in aula, la sostituzione avrebbe dovuto chiederla lui.