Renzi non ha tempo per festeggiare
In una sola domenica si concentrano più fatti storici che in sette anni di vita del Partito democratico. Ma colui che l’ha resi possibili non ci si ferma su, se non per una breve frase di circostanza, per dichiarare una commozione che non trapela da nessuna parte.
È la prima volta nella storia della repubblica che un partito di sinistra sfonda la mitica quota 40. È il più ampio distacco mai registrato fra il primo partito e chi lo segue. È la prima volta che la sinistra è maggioranza in tutte le regioni. Un partito di sinistra torna dopo decenni a insediarsi nel Nord, con cifre da capogiro in una delle aree più industrializzate d’Europa, ritrovando contatto con pezzi di società che parevano irraggiungibili. Appena entrato nel Pse, il Pd ne prende già la guida, col maggior numero di eletti. Il governo è l’unico nell’Unione che avanza nelle urne.
Renzi ottiene questi risultati sei mesi dopo essere diventato segretario del Pd, dopo neanche tre mesi a palazzo Chigi. Solo due anni fa nel suo stesso partito lo definivano un infiltrato, un estraneo, un alieno: evidentemente lo era davvero rispetto a quella sinistra lì.
Lui però, almeno in pubblico, non solo non festeggia ma è già altrove, si occupa d’altro. E fa bene. Sapevamo che il difficile sarebbe arrivato dopo il voto. Non pensavamo però che sarebbe stato così difficile. Nonostante la vittoria. Anzi, proprio in ragione di essa.
Proviamo a mettere in fila le grane che aspettano il trionfatore delle europee, togliendo però subito di mezzo l’unica sulla quale ci siamo concentrati nelle scorse settimane contribuendo tra l’altro a confondere le idee ai malcapitati militanti del movimento Cinquestelle.
Infatti, il meno grave dei problemi del premier pare essere la tenuta del quadro politico nazionale. Un po’ tutti vedevamo il grande innovatore rallentato nella sua azione, frenato da avversari dichiarati e occulti, costretto nella palude di un parlamento che non lo amava, convincente solo in parte sulle misure economiche sulle quali aveva puntato e che tanti – dai famosi tecnici del senato agli impazienti commentatori liberal – consideravano o esagerate o insufficienti, a scelta.
Concentrati sul rapporto tra Renzi e il Palazzo, abbiamo pensato che per tutti questa sarebbe stata la pietra sulla quale valutarlo. Per Grillo, la pietra alla quale inchiodarlo. Così abbiamo perso di vista l’essenza del renzismo, che è altrove. Alcuni milioni di italiani infatti hanno incontrato Matteo Renzi per la prima volta solo domenica, e la reazione di affidamento che nel dicembre scorso era stata degli elettori delle primarie si è estesa a una grande parte del corpo elettorale.
Proprio questo affidamento consegna al Pd e al suo segretario il primo problema. Quel 40,8 per cento, appunto perché contiene persone che per la prima volta pensano di potersi fidare di un leader di sinistra, sarà terribilmente esigente. E volatile: la fluidità elettorale (almeno di questo, merito va dato a Grillo) è tale che il Pd non può dare per acquisito un risultato così eccezionale. Di qui l’urgenza che Renzi avverte e che ha restituito a chi aspettava da lui feste e sorrisi. Un’urgenza che il premier ribalterà sugli altri partiti: tutti malconci e sofferenti per l’alleanza o per l’ostilità col Pd, ma egualmente obbligati a guardare in faccia la domanda di riforme che sale potente dal paese.
Poi, anzi prima, c’è l’Europa. Abbiamo la risposta alla domanda di questi mesi: chi può difendere gli interessi italiani contro l’euroburocrazia e politiche sbagliate. Ma non sappiamo se all’attenzione conquistata da Renzi nel Pse e fra i suoi colleghi capi di governo corrisponderanno un’adeguata capacità e la forza politica necessaria a invertire la rotta. Imprevedibilmente, sulle spalle di questo uomo di neanche quarant’anni pesa oggi una responsabilità che travalica i confini. Lui, il presunto sbarazzino, la sente tutta. Ecco perché non ha tempo per festeggiare.