Ma ce la può fare?
Oggi l’Italia cambia governo, e benché l’evento sia stato vissuto e raccontato in questi giorni come uno scontro fra due individualità, la percezione immediata è che si stia in realtà spalancando la porta a una stagione davvero nuova e inedita dell’intera politica italiana.
Enrico Letta lascia dopo aver tenuto il punto ma essendosi fermato un attimo prima di coinvolgere il paese, il sistema politico e il Pd in uno psicodramma pericoloso: una linea di condotta molto “prodiana”. Matteo Renzi si avvia verso l’obiettivo della vita, il governo, col suo solito passo accelerato, e la notizia fa già il giro del mondo suscitando verso l’Italia una curiosità finalmente positiva.
Naturalmente rimangono aperti i problemi, le incognite e anche le ferite di questo passaggio di consegne a palazzo Chigi. Ma la politica di questi tempi è impietosa, veloce, impone già di occuparsi del futuro. Anche perché soprattutto questa è la scommessa del presidente del consiglio in pectore: determinare in tempi rapidissimi una enorme mole di fatti nuovi, rotture di continuità, strappi alle regole, sì da cancellare in fretta gli aspetti negativi della svolta che lo vede protagonista.
Rimaniamo però ancora per un momento sulla tappa di ieri, che è stata importante per la luce che getta sul passato recente e sul futuro prossimo.
Ieri è stato il giorno della saggezza, come speravamo mercoledì nel momento più teso del rapporto fra Renzi e Letta. Dal duello rusticano descritto (senza inventare nulla) dai giornali, s’è passato a ragionamenti politici più lucidi e freddi. E poi è stato il giorno in cui il segretario del Pd ha dato la sua risposta alla domanda che era sulle labbra di tutti gli elettori, militanti e dirigenti del suo partito: perché lo fai?
Ora sappiamo perché Renzi ha giudicato inevitabile ciò che aveva sempre detto di voler evitare: sostituire il suo «amico», e farlo senza passare dal voto popolare. In sintesi, il segretario ha spiegato alla direzione Pd che il deterioramento del quadro politico e la stanchezza del governo erano ormai tali da compromettere il buon esito del più importante impegno assunto davanti agli elettori, cioè la riforma delle istituzioni. E che nell’impossibilità di andare al voto subito, l’unica strada percorribile era un rilancio pazzesco del coinvolgimento del Pd e del suo segretario. When in trouble, go big.
Non è detto che la risposta suoni convincente per tanti, soprattutto estimatori di Renzi, che pensavano per lui e insieme a lui a un altro percorso, a un’altra traiettoria per arrivare allo stesso approdo in modo più coinvolgente. E questo è uno dei problemi rimasti aperti, ammesso che Renzi lo consideri tale ora che deve occuparsi di rimescolare il quadro politico e di comporre una squadra di ministri da strappare applausi. Nella testa del futuro premier, la ricostruzione di un’immagine positiva e “altra” è ormai affidata a conquiste veloci e sorprendenti nell’azione di governo. Sempre che dal governo, in attesa di una riforma delle istituzioni che non ha tempi certi, sia possibile fare mirabilie.
Va notato che ieri in direzione Renzi s’è occupato solo di smontare l’argomento delle “elezioni subito”, più che di spiegare i limiti dell’azione di Letta. Evidentemente in quella sede il secondo tema era già dato per acquisito (in effetti critiche diffuse al governo nel Pd se ne ascoltano fin da quando era segretario Epifani), mentre sul primo punto negli ultimi giorni si sono svolte discussioni accanite fin dentro l’inner circle renziano. Tant’è vero che molti rimangono convinti che, senza poterlo ovviamente confessare (soprattutto ai gruppi parlamentari), Renzi dichiari di puntare al 2018 ma intanto abbia fretta di incamerare la riforma elettorale, pronto a ricorrere appena necessario o utile all’arma ora indisponibile delle elezioni anticipate.
Il sospetto è legittimo. Com’è suo tipico, Renzi sfida il politicamente corretto e rivendica di nutrire «una sfrenata ambizione». Fa bene, e io penso che l’obiettivo 2018 sia reale e non fittizio. Ma lui è il primo a sapere quanti ostacoli si frappongono alla realizzazione di questa ambizione.
Di difficoltà ne salteranno fuori a breve, nella trattativa inevitabilmente vischiosa per la formazione e possibilmente l’allargamento della coalizione di maggioranza. Ce ne saranno nei prossimi tre mesi, appena la campagna elettorale per le Europee imporrà toni da battaglia anche fra alleati. E saranno durissime nell’arco del primo anno di governo, quello decisivo per portare a casa le riforme costituzionali.
Quando Renzi chiuse l’accordo del Nazareno con Berlusconi, molti gridarono al miracolo: era riuscito dove tanti prima di lui erano falliti. Ora il segretario-premier dichiara di voler provare là dove sono caduti alcuni fra i più grandi leader politici italiani: gestire contemporaneamente, in prima persona e non per delegata bicamerale, una maggioranza di governo (nel pieno di una tragica crisi economica, dovendo contrattare con l’Europa a ogni passo) e un’altra per la riforma istituzionale: maggioranze diverse e in parte conflittuali fra loro. E di volerlo fare stando seduto al tavolo con un baro di professione come Silvio Berlusconi, sotto il fuoco alzo zero di Beppe Grillo, con l’accusa perennemente pendente di occupare palazzo Chigi senza un mandato popolare.
È un’impresa micidiale, che l’ormai ex sindaco affronta con apparente confidenza.
Eccesso di sicurezza? Diciamo che tutti quelli che hanno provato a colpire l’ormai ex sindaco quando era molto esposto, se ne sono dovuti pentire. Così come quelli che hanno provato a farlo inciampare quando correva troppo. Ogni meta prefissata è stata raggiunta, lasciando ai lati della strada avversari e dubbiosi. La sua autostima non può che esserne uscita accresciuta, il che in politica è un vantaggio e oggi è un gran vantaggio per l’intero Pd.
L’importante è che Matteo Renzi si ricordi che, a ogni suo salto di status, si allarga il numero di chi viene coinvolto dalle sue scelte e dalle sue fortune. Fino a oggi era solo il popolo democratico. Da domani sarà l’intero popolo italiano.